Il nuovo capitalismo assoluto-totalitario, figlio del 68

Di Diego Fusaro
Il nuovo spirito del capitalismo è
- totalitario, dacché occupa in forma totale e totalitaria la realtà materiale e immateriale, facendosi come l’aria che respiriamo, saturando lo spazio del mondo (globalizzazione) e quello della coscienza, con una colonizzazione dell’immaginario, per cui tutto è pensato per il tramite della forma merce (debiti e crediti nelle scuole, utero in affitto, investimenti affettivi, ecc.).
È altresì
- assoluto, giacché è ora perfettamente “compiuto” (absolutus), cioè realizzato nel proprio concetto (tutto, senza residui, è divenuto merce): ed è perfettamente compiuto proprio perché è “sciolto da” (solutus ab) ogni limite che ancora possa frenarne, impedirne o anche solo rallentarne lo sviluppo.
Salutato illusoriamente come un processo rivoluzionario di opposizione all’assetto capitalistico, il Sessantotto – come si è mostrato in Il futuro è nostro – deve essere interpretato, in maniera diametralmente opposta, come il mito di fondazione del turbocapitalismo: e, più precisamente, come il punto di passaggio decisivo dalla fase dialettica a quella speculativa, e dunque come un momento del tutto interno alla logica dialettica del capitalismo stesso. Con una formula, il Sessantotto segna l’emancipazione non dal capitalismo, bensì del capitalismo: quest’ultimo si libera, uno motu, della coscienza infelice borghese (sostituita dall’incoscienza felice del consumatore plusgaudente) e delle lotte per il riconoscimento del lavoro servile.
Queste ultime sono rimpiazzate, oltre che dalla nuove lotte di liberalizzazione individualistica dei consumi e dei costumi (che rinsaldano anziché indebolire l’ordine della produzione) e dall’economicizzazione del conflitto, vale a dire da lotte che non contestano il capitalismo, ma che, richiedendo semplicemente migliori condizioni salariali al suo interno, lo assumono come orizzonte intrascendibile. Così inteso, il Sessantotto è il momento genetico del nuovo terrifico capitalismo assoluto-totalitario, che dissolve ogni identità – compresa quella di classe – e produce una massa amorfa di consumatori che si relazionano all’essente nella sua totalità nella forma del consumo: è il decisivo punto di passaggio verso l’odierna individualizzazione post-borghese, post-proletaria e ultra-capitalistica.
Il Sessantotto, lottando contro la borghesia, la sua coscienza infelice e i suoi retaggi etici, stava per ciò stesso lottando non contro il capitalismo, ma a suo favore, se si considera che era coerente con la logica stessa dello sviluppo dialettico del capitalismo l’abbattimento tanto della borghesia, quanto del proletariato come ostacoli all’allargamento illimitato della forma merce e delle sue patologie. Più precisamente, il Sessantotto, promuovendo un ordine politico di tipo anarcoide e libertario, avverso alle grandi organizzazioni in quanto intese come intrinsecamente oppressive, favorì e non contrastò la genesi della deregulation liberista e della nuova figura dialettica del capitalismo assoluto-totalitario, dalle quali fu presto riassorbito. Ciò costituì, oltretutto, una delle molteplici prove del fatto che, come già sapeva Marx, il capitale è proteiforme e adattivo, a patto che ne siano garantiti i modi dell’estorsione del plusvalore.
Il capitalismo supera dialetticamente le rivendicazioni antagonistiche del proletariato (lotta di classe, spirito di scissione, organizzazioni partitiche, passione rivoluzionaria) e, insieme, la coscienza infelice borghese. Anche quest’ultima rappresenta, non meno dell’antagonismo rivendicativo e potenzialmente rivoluzionario del proletariato, una contraddizione in seno al capitalismo, se si considera che la borghesia
- ha una sua vocazione universalistica che può portarla – come nel caso di Marx – a contestare il mondo storico capitalistico nel quale pure è classe dominante;
e
- ha una sfera valoriale ed etica non mercificabile e, dunque, incompatibile in ultima istanza con i processi di onnimercificazione propri del capitalismo assoluto.
La borghesia e il proletariato, nella loro conflittualità dialettica, si erano sviluppati nel quadro dell’eticità in senso hegeliano, vale a dire nello spazio reale e simbolico delle “radici” solide e solidali della vita comunitaria, legata alla famiglia e alla scuola, al sindacato e allo Stato sovrano nazionale. Il capitalismo assoluto-totalitario deeticizza il mondo della vita, annichilendo ogni residuale comunità che non sia quella intrinsecamente comunitaria dell’effimero do ut des mercatistico: decostruisce la famiglia e i sindacati, la scuola e lo Stato sovrano nazionale, producendo l’open space del mondo ridotto a mercato e abitato unicamente da consumatori sradicati e omologati, senza coscienza antagonistica proletaria e senza coscienza infelice postmoderna.
Deeticizzata, la società diventa una semplice società di consumo, un mercato cosmopolitico popolato non già da cittadini di Stati nazionali e da padri e madri, ma soltanto da competitors; competitors che, in assenza di ogni spirito comunitario, si relazionano soltanto sul fondamento dei principi teorizzati dalla Ricchezza delle nazioni di Adamo Smith – la dipendenza onnilaterale del bisogno e l’egoismo acquisitivo – in relazione al birraio, al macellaio e al fornaio.
Più forte perché transitato per l'”immane potenza del negativo” della scissione e del conflitto rivoluzionario tra borghesia e proletariato, il capitalismo diventa capitalismo assoluto-totalitario: assoluto, perché – come ricordato – pienamente corrispondente al proprio Begriff; totalitario, dacché ha sussunto sotto di sé ogni ambito della produzione, dell’esistenza e dell’immaginazione, del reale e del simbolico.
Analogamente, sul versante della produzione intellettuale, si è dissolta la “coscienza infelice” e, in luogo della classe dialettica della borghesia, è subentrata una global class che non è più borghese ma ultra-capitalistica, propensa ad accettare disinvoltamente il “politeismo dei valori” e degli stili di vita all’interno della “gabbia d’acciaio” del monoteismo idolatrico del mercato.
Fonte: AVIG