Sonorità dissidenti contro Grande Reset, conformismo e post-modernità: una colonna sonora per la nostra ribellione

Di Alessandro Napoli
Gli artisti sono le antenne della specie. Gli effetti del male sociale si manifestano innanzitutto nelle arti. – Ezra Pound
Sono passati due anni dall’inizio della pandemia e ci inoltriamo in questo parossistico 2022 con il ricordo dell’immagine emblematica delle masse di Pyongyang che festeggiano in piazza liberamente il capodanno mentre tutto il resto del mondo, soprattutto l’occidente “democratico”, è in preda al panico, in più o meno velato lockdown, sottomesso a dure restrizioni che discriminano apertamente chi, per un motivo o per l’altro, non ha accettato il diktat della corporate culture dell’industria farmaceutica e di quella dell’automazione divenuta politica di Stato a livello mondiale. Un’immagine questa, che per alcuni descrive un mondo alla rovescia, mentre per noi di NR-EVROPA ed NR-ITALIA non è nulla di nuovo, nient’altro che il vero volto totalitario del liberalismo e della globalizzazione, la fotografia di un’epoca in cui, attraverso il Grande Reset, il Nuovo Ordine Mondiale dimostra di non avere più bisogno di maschere per raggiungere i suoi fini.
Prendendo ispirazione da una riflessione di Daniele Perra, possiamo dire infatti, che quello che era il leviatano di hobbesiana memoria che si innalzava a difesa e a tutela dello Stato liberale, oggi è stato fagocitato da un leviatano tecnocratico di dimensioni globali, fatto che piuttosto ci mette di fronte alla dicotomia schmittiana dello Stato totale qualitativo capace di garantire la salvaguardia della Nazione, e il suo opposto, lo Stato pluralista quantitativo il quale sacrifica l’interesse nazionale per quello dei gruppi d’interesse che lo gestiscono e che per questo è impropriamente detto “pluralista”.
Tuttavia, in questo pezzo, verrà messa da parte l’analisi politica nella misura del possibile, per potersi così soffermare su aspetti di più leggera trattazione e di ordine prettamente socio-culturale che personalmente ho molto a cuore e cioè l’impatto della politica nella musica e viceversa con una breve recensione di quelli che sono stati i più significativi lavori che ci hanno accompagnato in questo percorso dissidente dall’esordio del Grande Reset ad oggi.
Molte sono state le voci nel campo della cultura e dell’arte che hanno denunciato la criminosità di questo che sembra essere sempre più un piano distopico votato al controllo globale delle coscienze, all’annientamento delle identità e delle comunità in sintonia con i precetti della società fluida. In ogni modo, se si pensa alla anteriormente citata notte di capodanno di Pyongyang, di un fatto possiamo esserne certi, questo è anche il momento degli intransigenti, dei ribelli, di chi davanti alle avances del mondo moderno cosiddetto libero ha preferito la disciplina e il coraggio del mondo arcaico. Questo è soprattutto il momento delle «piccole Patrie sempre sul chi vive» che hanno saputo ritrovare con fatica, per le infinite vie della storia, spesso traverse e “trasversali”, il sentiero del ritorno alla Tradizione oltreché dell’autodeterminazione e del comunitarismo.
Ed è così che il nostro eclettico Giovanni Lindo Ferretti cantava ne “L’Imbrunire” nell’estate del 2020 quando i nostri governanti ci proponevano come soluzione definitiva alla pandemia quello che invece era l’ingrediente principale della nuova normalità e cioè quell’intruglio di distanziamento sociale e mascherine, terrore della socialità e diffidenza per il prossimo potenziale untore, digitalizzazione e virtualizzazione delle relazioni umane; intruglio mefitico alla base della radicalizzazione e dell’accelerazione di quello che il filosofo francese Jean-Claude Michéa definisce: «[…] Doppio processo di modernizzazione/emancipazione che giunge – sul piano pratico – a rimpiazzare il progetto socialista di un’abolizione progressiva e controllata dei soli legami sociali fondati sullo sfruttamento e sul dominio dell’uomo sull’uomo, con l’unico aberrante progetto di farla finita col legame sociale stesso». Rituale iniziatico, dunque, per la nuova epoca transumana che si prefigura come l’obiettivo compiuto della sovversione totale e immediata degli archetipi, delle abitudini sociali, persino della biologia.
Un Occidente ed un’Europa che oggi stiamo già cominciando ad assaporare intravedendo la morte delle comunità e della ruralità a favore di megalopoli intelligenti con l’avvento graduale di una dimensione in-umana che tra le sonorità trip-hop/sci-fi con sfumature techno di Luca Alfonso Rossi degli Üstmamò e schitarrate che sembrano provenire da quell’Heartland mistico mongolico-eurasiatico dell’immaginario dei C.S.I., viene descritta da Ferretti con versi degni della migliore avant-garde post-futurista: «Mercato, gran serraglio, smart Bisanzio / Caos democratico, alta definizione / Giallo, rosso, verde, azzurro, bianco, nero / In mutazione». Società occidentale, all’insegna della transumanizzazione e dello “sgretolamento”, i cui soggetti principali saranno la tecnica, il mercato, il digitale, il “Green” dall’approccio antropocentrico ed estrattivista e non più la classe, il popolo, la Patria, la persona o quanto meno la natura intesa alla maniera di una deep-ecology che proponga un ritorno all’antico spirito comunitario di convivenza ed interconnessione tra uomo e ambiente. Società del futuro prossimo nel quale, per riprendere ancora una volta le parole del brano del cantante-eremita tosco-emiliano: «saremo post-tutto-Anti pronti per il Niente».
Già prima della release de “L’Imbrunire”, Giovanni Lindo Ferretti ci aveva suggerito la vera natura di quei lockdown con il brano “Ora”, tanto subliminale quanto esplicito nel sintetico testo suddiviso in due parti cantate e recitate – senza smentire le varie anime dell’autore, da quella punk a quella cattolica – tra le quali si incunea “La Lune du Prajou” da “Ko de Mondo” del 1994 con i suoi bassi profondi, strascicati e pesanti sui quali aleggiano i cori lievi di Ginevra De Marco. Il tutto correlato da un video in stile VHS nel quale il testo sovrimpressione dalla grafica vaporwave fa da cornice a quello che maggiormente e volutamente balza all’occhio: il cartello affisso sulla porta della Chiesa del paese che avvisa dell’interruzione delle Sante Messe fino a “Venerdì 3 Aprile” mettendo in evidenza il cortocircuito tra «…il tempo ritrovato…» e il proseguire accelerato dello stesso «…senza lavoro, senza liturgia…» mentre la virtualità comincia ad irrompere sempre più prepotentemente nelle nostre vite.
Chi in questi anni ha cercato di inquadrare Giovanni Lindo Ferretti nelle classiche e obsolete categorie di “destra” e “sinistra” non coglie – e probabilmente non ne ha né le capacità, né le nozioni per farlo – che oltre al fatto che l’arte non può essere appiattita su tali categorie, dette categorie sono ormai desuete e prive di significato in generale poiché stagnanti nell’acquitrino del pensiero unico e del politicamente corretto, perciò ormai funzionali al sistema in sé. Quello stesso sistema nemico delle identità e della giustizia sociale che trasforma le persone, prima in “individui”, poi in merce per poi rendere finanche le Nazioni spettri di se stesse.
Per noi Giovanni Lindo Ferretti è invece una di quelle persone che si sono sempre spinte ben oltre i deserti aridi dei cliché di qualunque conformismo e nel farlo hanno saputo coltivare e curare quel buonsenso – nella continuità spirituale con la propria origine, appartenenza e comunità – che costituisce una dimensione intima inalienabile e non mercificabile di alcuni uomini e che essendo uomini hanno essi stessi pregi e difetti. Ciò si colloca ben al di là delle bandiere ed è parte integrante di quei valori insostituibili e imprescindibili che Alain De Benoist considera aristocratici e proletari al tempo stesso – legati alla terra – che si completano reciprocamente e si oppongono frontalmente ai valori borghesi.
Sempre per restare in Italia, ma addentrandosi nei meandri delle sperimentazioni Neo-Folk, mi sembra doveroso fare menzione dell’opera maestra uscita il 5 Gennaio 2020 del progetto ThuleSehnsucht In Der MaschinenZeit di Solimano Mutti dell’Eurasian Artists Association: l’album “The Aeon of ThuleSehnsucht” prodotto in Spagna dalla Gradual Hate Records. Come da stessa descrizione fornita dall’autore, questo lavoro non è solo l’acme dei precedenti 12 anni, ma è un viaggio attraverso le migliori tracce di T.S.I.D.M.Z., brani rivisitati e nuove canzoni; è un ex cursus delle diverse collaborazioni realizzate e dei diversi stili toccati negli anni. Un disco, che oltre ad essere anima del progetto, è una visione che fonde Futurismo e Tradizione, visioni eurasiatiche/iperboree e scenari post-atomici in quello che è il suo caratteristico ambient/martial-industrial ispirato all’universo Quarto-Teorico e che – con il proposito di essere quanto più eclettico possibile pur rimanendo fedele a se stesso – si è sempre fregiato di collaborazioni con altri musicisti e progetti condivisi dei quali non ne è carente nemmeno questo album che per molti versi è sicuramente una bandiera.
Un altro capolavoro Neo-Folk degno di nota e che ha sicuramente accompagnato molti di noi dal suo lancio alla fine di Gennaio dello scorso anno fino ad oggi è “Parlez-Vous Hate?” del lussemburghese Jérôme Reuter dei ROME. Un album realizzato in fretta grazie al tempo a disposizione della band che si era vista costretta a cancellare le sue date a causa della pandemia, avendo per questo più tempo da trascorrere in studio. Album che però non ha assolutamente deluso le aspettative sia dal punto di vista musicale che dei contenuti. Un Neo-Folk combattivo e cadenzato che si scaglia con decisione contro le degenerazioni e le contraddizioni della modernità, che a tratti si discosta dallo stile consueto della band mentre per altri versi ricorda i migliori tempi della stessa.
Il brano omonimo e più significativo dell’album, che parte subito dopo la breve intro “Shangri-Fa”, prende di mira il politically correct di matrice anglosassone che si è imposto in maniera totalitaria all’intera società occidentale sottolineandone i veri intenti, cioè disintegrarne interamente il tessuto attraverso la censura, la sorveglianza, la sovversione dell’ordine naturale delle cose.
A seguire, “Born in the E.U.”, che sulla falsariga della celebre canzone di Bruce Springsteen “Born in the U.S.A.”, allo stesso modo di essa, da sfogo alla classe operaia tradita dalla “politica” e sacrificata sull’altare di Moloch («To be so naked for Moloch and dancing all in tatters») mettendo dunque in risalto patriotticamente la perversione del sistema economico-finanziario europeo, nel nome di una differente Europa dei popoli opposta a quella attuale dei banchieri.
La quarta traccia dell’album è “Death from above”, ispirata alla poesia “Ode” del 1873 scritta dal poeta inglese Arthur O’Shaughnessy. La poesia è famosa per aver originato l’espressione “movers and shakers” per riferirsi ai gruppi di individui che da sempre hanno “mosso e scosso” il mondo e ne hanno dunque costituito le élites.
Non poteva mancare poi, un caratteristico brano martial-industrial come “Panzerschokolade”, il quale rimanda a scenari post-apocalittici da guerra chimica e prende il nome da una metanfetamina utilizzata dai soldati tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. La Panzerschokolade era un vero e proprio antidoto al terrore instillato dal campo di battaglia, anche in questo caso l’allusione calzante all’epoca distopica in corso non è casuale.
Da segnalare è anche il brano “Feral Agents” presente anche sull’omonimo single in una interessante versione che vede la featuring di King Dude, cantante Neo-Folk statunitense. Sulla B-side del vinile, invece, la “Eumesville Session” del celebre brano “The Spanish drummer”, registrata live nello studio “Heliopolis”, e tratto da “Die Æsthetik der Herrschaftsfreiheit: Aufruhr / A Cross of Fire” del 2011. Sia “Eumesville”, base operativa del gruppo lussemburghese, che “Heliopolis”, lo studio di registrazione, prendono il nome dai celeberrimi romanzi post-apocalittici di Ernst Jünger, appunto “Eumeswil” del 1977 ed “Heliopolis” del 1949.
Non da meno sono brani come “Toll in the great Death”, pezzo che più di tutti risente musicalmente dell’esperienza Irish-Folk dell’album “The Dublin Session” del 2019, e che appare come una critica alla corruzione borghese che contamina ogni cosa con i suoi valori venali e mercatisti («…And we’ll hold a dream / Though the dream may be old / And since bought and sold / With traitor’s gold»); “You owe me a whole World”, che sembra essere un grido di rivalsa contro il mondo moderno veicolato da riffs Neo-Folk aggressivi dall’anima punk («You owe me a whole world / A whole new identity / You owe me a whole world / A brave new society»); “Blood for All”, un riferimento al nuovo normale e una denuncia dei dogmi imperanti dello scientismo nella società attuale («…Into your brave new orthodoxy / As studies have shown / I need to do away / With all things true yesterday»); e “Alesia” che ci riporta alla mente l’impresa immortale delle legioni di Giulio Cesare nella conquista della Gallia contro la nobile resistenza degli Arverni e, sulla scia della rabbia contro gli ideali liberali espressa in tutto l’album, si fa beffa dell’idea di Francis Fukuyama, alla base dell’odierna globalizzazione e del Nuovo Ordine Mondiale, sulla “Fine della Storia”, sostenendo al contrario, su note malinconiche ma cariche di speranza, che la storia non ha mai fine («There is no closure / Nothing’s ever over / There’s no end to history / You’ll see».).
L’album, infine si chiude con l’interessante outro “Fort Nera, Eumesville”, un martial-industrial che ricorda ultimi lavori della band come “Käferzeit” e “Gärten Und Strassen” in ambito di sperimentazione post-industrial.
Sempre per quanto riguard la scena Neo-Folk, dalla Danimarca, arriva l’ultima perla della band :Of The Wand & The Moon: la cui release è stata nell’Ottobre del 2021 e le cui intenzioni e tematiche traspaiono sin dalla scelta grafica della copertina con un Kim Larsen che stringe le mani al collo come per strangolare se stesso in un atto di autolesionismo a voler rappresentare l’atmosfera asfissiante e la rassegnazione nell’autoinfliggersi dolore dell’Europa in cui stiamo vivendo: una civiltà che non riesce a trovare la forza e la volontà di tornare ad essere soggetto storico. Così come la stessa copertina anticipa le sonorità, tetre, caratteristiche dello stile della band, che però questa volta si caricano di una malinconia e di una nostalgia anomale come a trasmettere inquietitudine anziché l’atavica e mistica tranquillità trasognante di sempre. Com’è possibile immaginare – in questo caso, data la band – l’estetica e l’esaltazione delle emozioni prendono il posto della politica pur lanciando un preciso messaggio esistenziale ad essa attinente.
Il primo brano è “Whispers Of The Past”, una canzone pregna di estrema dolcezza in cui alla melodia dei ritornelli di Kim Larsen fanno da sponda gli eterei cori di Sarah Hepburn. Riporta l’anima a passati antichi congiungendoli con un presente che è già futuro in una ballata dal sapore autunnale con ondeggianti giri di basso e accordi che a tratti si amalgamano ai synth i quali prendono forza morbidamente rendendo l’atmosfera onirica.
A seguire, tre pezzi in continuità concettuale tra loro che cambiano radicalmente la prospettiva: il brano che da il titolo all’album, “Your Love Can’t Hold This Wreath Of Sorrow”, trasporta l’ascoltatore in un’atmosfera decisamente più introspettiva. I vocalizzi di una tromba – da lontano, quasi fuori campo – gradualmente divengono sempre più presenti e risalgono il fondo grave e lento del tappeto sonoro fino a combinarsi alla profonda tristezza del testo imbevendola di un’aria piovosa e metropolitana («Gaze upon these streets embrace / This haunted air / I woke from a dream I see things that are not there / Gaze upon these wounds breathe this haunted air / I woke from this dream and saw you dissapear…»). Sulla stessa scia il brano successivo, “Let’s Take A Ride (My Love)”, nel quale quelle atmosfere diventano ancora più concrete e reali: la tromba qui trasmuta il Neo-Folk in Dark-Jazz in una perfetta alchimia. In “Fall From View”, il processo alchemico fa sì che l’atmosfera dark si dissolva di colpo in un infernale Jazz-Noir che vorticosamente la risucchia e la spazza via.
Irrompono quindi sonorità e melodie decisamente più fresche e solari con “Love Is Made Of Dreams” che traghettano l’opera in quelle più gotiche e crepuscolari dell’interessante “Twilight Halo” introdotta dal brusio di una vecchia radio e voci spettrali che danno un tocco di industrial al tutto. Il brano in questione è caratterizzato da quel senso inquietante di asfissia alleviato dai vocalizzi della tromba che ritorna a prendersi la scena sul finale del pezzo.
Con “Les Journées Sans Fin Et Les Nuits Solitaires” riappare in primo piano l’eterea grazia di voci femminili insieme ad una dolce e nostalgica speranza. Brano questo, la cui bellezza si commenta da se attraverso il testo in francese recitato da una voce femminile spezzata da emozione e pudore dal sapore romantico di tempi perduti: «…Je veux m’en aller avec toi / À travers la ville / Juste toi et moi / Voler à travers la nuit / Ne jamais revenir…».
“Williamsburg Bridge”, interludio in stile neo-classical, introduce “Nothing For Me Here”, brano in cui è presente la featuring di Martin Hall dei Ballet Mécanique, iconica band new wave della scena danese degli anni ’80, il quale esegue i backing vocals. L’album si chiude con “Barbs Of Time”, una outro che si apre con percussioni tribali e chitarre distorte in sottofondo che lasciano il campo alla voce di Kim Larsen su giri Neo-Folk serrati e ipnotici in tipico stile :Of The Wand And The Moon:.
In definitiva “Your Love Can’t Hold This Wreath Of Sorrow” si rivela un ottimo lavoro, sui generis, che però non tradisce le aspettative. Cupo e introspettivo come è consuetudine, che riesce però, nella sua natura intimista che mai cede a solipsismi, ad interpretare lo Zeitgeist attuale e trasmettere allo stesso tempo uno slancio jungeriano di inconformità e dissenso.
Spostandosi sulla scena identitaria italiana e cambiando totalmente genere, a proposito di quello slancio di cui avremmo bisogno per riportare l’ordine nelle nostre vite e nella nostra civiltà, vale la pena segnalare il recente video “Il Moto del Fiume” della punk-band romana Bronson, lanciato il 26 Dicembre 2021, e che anticipa il futuro album “Live Fast Die Hard”. In questa canzone, un punk-hardcore nello stile della band, il gruppo si discosta, almeno in questo frangente, dal suo consuetudinario nostalgismo politico – cosa che non dispiace affatto – per fare spazio ad un più universale grido di rivolta, soprattutto interiore, contro il mondo post-moderno.
Di questo spirito ne è carico il testo che esprime forza e rabbia nei confronti del destino e della rassegnazione («Non riesco a contenermi, / Crollano gli argini. / Guardo lo specchio e no non posso più reprimermi. / E raccontarmi vecchie glorie del passato e poi / Abbandonarmi al fato creato da voi.») ma soprattutto l’eccellente video-clip girato in stile cartoon fine anni ’80 nel quale confluiscono richiami alle tematiche orwelliane del film “Essi vivono” del 1988 di John Carpenter e scenari di guerra sci/fi post-moderna che fanno da sfondo alla ribellione del protagonista della mini-storia: una sorta di Tyler Durden del XXI secolo.
Le immagini dell’eroe immortalato in combattimenti di arti marziali miste o abbandonandosi ad un bottiglia su cui campeggia il logo di un wine-bar romano, si alternano con quelle in cui è alla guida di una navicella spaziale a forma di punta di lancia, con un pugnale stretto tra i denti e metà del volto rappresentato come un teschio dall’orbita oculare cava. Immagini queste ultime che alludono espressamente ai simboli dell’arditismo, allo spirito di Fiume e di quel sano patriottismo inteso come ribellione al malsano nichilismo della società odierna.
Non manca la psichedelia intrisa d’assenzio dal forte carattere simbolico: un cameriere che sorregge una bottiglia di Champagne si trasforma, prima in un insorto intento a lanciare una Molotov, poi in una pantera e infine in un veliero pirata.
Il video quindi si conclude con l’estremo sacrificio dell’eroe che, incurante della morte, si scaglia con il suo velivolo contro una portaerei manovrata da un personaggio goffo e grasso simbolo di tutto il marcio del mondo contemporaneo.
Restando ancora nell’ambito del rock identitario italiano, speriamo vivamente di poter assistere nel futuro prossimo ad un ritorno sulla scena del cantautore Federico Goglio in arte Sköll che attualmente sembra essere in una delle sue lunghe ma prolifiche pause dopo l’ultimo album pre-pandemia “Neo-Geo” uscito nel Dicembre 2019 e la cui title track era una critica pungente contro la plasticità della vita contemporanea sempre più priva di significato, tra individualismo, esibizionismo, nichilismo non-sense. Il ritornello, «Dimmi quello che sei / dimmi cosa diventerai…», un incoraggiamento a riflettere e riprendere il controllo della propria vita e quindi cercare nel superamento di se stessi il vero senso di essa.
In questi due anni, Sköll ci ha comunque deliziato con due video di due tra le più belle canzoni scritte da lui all’insegna del suo caratteristico romanticismo: «Linee di te» tratta dall’album «Storie di guerra e d’amore» del 2016 – video nel quale il cantautore scorrazza per Corso Buenos Aires a Milano a bordo di una stupenda Ural 750 2WD – e «Un atto di stregoneria» proveniente dall’ultimo lavoro, video che richiama alla mente purezza e magia di società arcaiche.
Da sempre l’arte, ed oggi in particolare la musica, si è fatta interprete delle epoche e dei luoghi, «gli artisti sono le antenne della specie. Gli effetti del male sociale si manifestano innanzitutto nelle arti», diceva Ezra Pound. Nell’era del mercato e dei talent show, dei dj e delle cover band, della musica preconfezionata creata da algoritmi per essere “orecchiabile”; nel mondo del sovraccarico cognitivo, dell’opulenza materiale e della miseria morale e intellettuale esiste ancora chi l’arte la fa con il cuore e con l’anima e con non poche difficoltà.
Emblematica la recente vicenda di Jérôme Reuter che si è visto bandire la sua musica dalle piattaforme online per un periodo di tempo piuttosto lungo poiché coinvolto in una causa legale da chi aveva cercato di appropriarsi del trademark di un nome – ROME per l’appunto – che non è solo il nome di una band ma quello di una città millenaria che non potrà mai essere mercificata. Per fortuna la musica della band lussemburghese è ricomparsa in rete, segno che alla fine Jérôme ha avuto la meglio sulla cancel culture dalle infinite risorse, ma resta l’aspetto più inquietante che è il fatto che in America ed in Europa qualcuno abbia potuto permettere tutto questo.

In un mondo come il nostro, essere un vero artista significa essere un Waldgänger di per sé, bisogna rifiutare il marcio del sistema senza compromessi e seguire la propria strada angusta e tortuosa fino in fondo e senza aspettative. In definitiva, anche se non basterà la musica a salvarci da questa post-modernità ipocrita, possiamo sperare che essa continui ad essere una trincea per gli spiriti nobili che ancora credono e difendono l’idea secondo cui ci sono cose che non possono essere né comprate, né barattate.
Scriveva ancora Ezra Pound: «Rendi forti i vecchi sogni. Perché questo nostro mondo non perda coraggio». E’ questo l’augurio che facciamo a tutti gli artisti che ci accompagnano in questa ribellione contro la mediocrità e il conformismo: rendete sempre più forti i nostri sogni, affinché il mondo lo possa salvare la bellezza.
