Confessioni di un teppista

Di Valentina Ferranti
Nel 1895 veniva alla luce Sergej Aleksandrovic Esenin, in un piccolo paesino di campagna: Konstantinovo. Siamo vicino a Rjazan, Russia occidentale. Sergej cresce con i nonni, contadini benestanti. Suo padre lavorava come impiegato a Mosca. Già bambino componeva versi. Un prodigio.
Coltivò l’immagine del poeta contadino, anche se la sua famiglia non rappresentava quella Russia indigente che con la prima guerra mondiale si ritrovò ancora più in miseria. La sua vita si innestò nei grandi stravolgimenti storici della sua madre patria che lo proclamò suo grande poeta. Non si riesce comunque, in poche righe, a tracciarne la grandezza ma solo a cogliere la suggestione di alcuni versi che riconducono chi li ascolta, al lirismo patrio di cui S. Esenin fu affetto per tutta la vita. Non possiamo neanche tracciarne con precisione una biografia; chiunque l’abbia tentata ha preteso di privilegiare alcuni aspetti del carattere o delle attitudini del poeta e spesso non in maniera oggettiva. Questa questione riguarda soprattutto la sua adesione o non alla rivoluzione russa; il suo essere bisessuale, istrionico, affamato di fama; bevitore nelle taverne di Mosca; creatore di falsi miti sulla sua persona; attaccabrighe e scandaloso nei comportamenti. Anche sulle cause della sua morte vi furono narrazioni differenti. Poco importa poiché il dato certo e che ne rappresenta al meglio la figura, è la nostalgia di un mondo agricolo, puro e arcaico, destinato a sparire velocemente nel dramma della rivoluzione sovietica. Fu proprio questo sentire nostalgico che toccò le corde del suo animo e rese preziosa la sua lirica rendendolo celebre.
Fece giustappunto parte dei “poeti contadini” che cantavano la Russia rurale, anche se ciò non gli vietò di divenire personaggi richiesti nei salotti intellettuali. S. Esenin aveva studiato, era bello, istrionico. Cercò successo e visibilità o forse ne fu coinvolto. Scelse donne popolari e famose al suo fianco. Tre matrimoni, il più “appariscente” con la ballerina californiana Isadora Duncan. Con lei conobbe l’America e l’Europa. Altri mondi, cui non appartené mai ma si compiacque del successo che riscontrò: il bel poeta russo a fianco della celebrità danzante. Vi è però un punto in cui la linea si blocca, un punto di rottura: per quanto alla ricerca di stordimenti mondani, Esenin rimase sempre e profondamente ancorato al suo paese, ai volti della sua gente che stava vivendo lo sradicamento dalla terra per divenire macchine asservite alla fabbrica. Scriverà ne “La Russia sovietica”: «Là dove una volta vi era la casa paterna, ora giace la cenere di un velo di polvere stradale (…) Cos’è diventata la patria?».
Pianse sempre e per sempre un passato contadino, mentre la sua vita si sfilacciava dentro un presente che con stordimento lo lanciava nel futuro. Una linea orizzontale che il poeta mai riuscì a decifrare completamente, restando su un bordo tra i colori del prima e la scoperta di un dopo che non gli diede appartenenza. Le porte del mondo moderno lo dilaniarono portandolo al successo per poi ricacciarlo in una stanza d’albergo, a Leningrado, solo, ad incidere col sangue versi, il giorno prima di impiccarsi. Questo il suo congedo: «Morire in questa vita non è nuovo, ma più nuovo non è nemmeno vivere».
La Russia era già di Stalin che non tardò, dopo la morte, a bandirne l’opera e deportare l’amico Nikolaj A. Kljuev in Siberia dove fu fucilato. Sua colpa, l’irriverente libertà di pensiero per cui l’amico di Esenin, non si conformò al regime o non ne lesse il pericolo poiché solo i poeti non calcolano le mosse del loro sentire che riassume il loro essere. I poeti sono inadatti a comprendere le ragioni del mondo, lo vivono per sfumature, suggestioni. Decifrano i colori, gli odori; vivono divorando sé stessi. Sono dei mangiatori di cuore, bruciano, non calcolano. I poeti sono inadatti al vivere, non ne hanno contezza. Possiamo leggere in questa breve e incompleta affermazione Sergej Esenin, poiché i poeti sono creature liminali, viaggiano tra i mondi, non riescono ad avere una appartenenza netta, il loro è un mondo altro che nello scorrere della vita usuale, li depaupera. Le muse gli rapinano la vita e non c’è scampo alcuno. Esenin come l’amico Kljuev, di cui forse fu l’amante, viaggiò dentro gli eventi storico del paese, vi partecipò e non vi partecipò come all’interno di un orizzonte perduto. Il poeta contadino mal sopportò il motore luccicante e veloce del mondo in movimento, verso un positivismo esistenziale che a lui fece gioco ma che ne distrusse l’animo. Malato d’impianti e di ricordi si smembrò il cuore in una nostalgia di freschi crepuscoli d’aprile.
La malinconia di Esenin si innesta nelle viscere emotive e lì ristagnò, per colpa dello sradicamento dal passato e dai campi. La Madre Patria stava cambiando e gli orizzonti si fecero per lui provvisori. La rivoluzione era macchina modernizzatrice. Richiamo impellente e contemporaneamente inquietudine. La rivoluzione comunista fu cosmopolita, industrialista, priva d’animo e plateale. Esenin era lirico, intimista, nostalgico patriota. Il poeta sentì di non appartenere al futuro bensì alla pioggia fina che rende morbido il grano verde a primavera.
Fu così che si ritrovò funambolo. La Russia sovietica picconava le vite. L’urbanità operaia cui la patria porgeva il fianco, mal si incastrò con i suoi sogni. L’uomo e quindi il poeta, poiché le due categorie coincisero, in lui, capì che la corsa della locomotiva su cui si ritrovò a viaggiare, lui dedito al ritmo lento e naturale del galoppo, avrebbe vinto sui villaggi della sua nascita. Nessuna partita da giocare quindi se non il tacito accordo che nulla avrebbe salvato la sua Russia contadina. Il socialismo, a conti fatti, gli parve privo di gloria, e lui dopo l’entusiasmo iniziale, rimase libero battitore. Non accolse la rivoluzione, ne la rifiutò. Forse non si confece nemmeno fino in fondo all’Immaginismo, movimento esplosivo che dichiarò una rivoluzione non solo fatta di pane ma anche di ricerca prorompente del bello. Trotsky ne intuì la potenza. Esenin fu quindi invitato al Cremlino ma rifiutò di fondare la rivista letteraria che il bolscevico gli chiese di dirigere. Il poeta fluttuava tra gli eventi storici che sconvolsero la sua madre patria, senza mai appartenere. Consumò il suo corpo in diversi tentativi di suicidio, fino a quello fatale. Richiami d’aiuto, urla contro un mondo che voltava le spalle alla sua infanzia. Instabile d’animo come tutti i veri poeti che vivono di un sentire amplificato, sarà dimenticato e poi nuovamente celebrato, poiché amò il mondo e la vita, bruciando sé stesso. Amò la Russia, quella che pensò imperitura, fatta di betulle, stagni, granai; grugni infangati dei maiali. E del silenzio della notte, la voce limpida dei rospi.
Esenin fu malato di ricordi infantili. Sognò sempre delle sere d’aprile la nebbia e l’umido.
Nonostante si prostituì, giocando ad essere un “personaggio”, annulliamo subito tale considerazione, dichiarando con forza che nei suoi versi si ritrova, senza fatica, la sua più pura essenza. Ce lo scrive nella lirica “Confessioni di un teppista”: «Io sono sempre lo stesso. Con lo stesso cuore». E sempre nella stessa maniera amò la patria, urlandolo in questi versi: «Se un esercito santo griderà: “Lascia la Russia, vivi in paradiso! “Io dirò: “Non ho bisogno di paradiso, datemi la mia patria“».
Questa è la sua purezza.
Fonte: Idee&Azione
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