Site icon Nuova Resistenza – ITALIA

Spengler e Berdyaev: due teorie del Rinascimento

Battista Sforza e Federico da Montefeltro (Piero della Francesca, 1473–1475)

Di Thomas Bertonneau

Nel XVIII secolo, panflettisti ed enciclopedisti arroganti, volendo rompere con la tradizione, esaltare la loro autonomia e celebrare quello che loro stessi chiamavano l’Illuminismo, inventarono la costruzione storica tripartita di Antichità/Medioevo/Modernità. Edward Gibbon e Georg Wilhelm Friedrich Hegel assumono questa sequenza, così come Voltaire e Auguste Comte. La modernità, il terzo termine, funziona per tali pensatori come la designazione della propria super-chiarezza intellettuale, che essi vedono come l’obiettivo e il compimento della storia. Hegel, come il suo successore Francis Fukuyama, credeva che il progresso dello spirito umano avesse effettivamente trovato il suo obiettivo nelle proprie cogitazioni e intuizioni, dopo di che ulteriori speculazioni sarebbero state inutili. Il filosofo russo Nicolas Berdyaev (1874 – 1948), scrivendo nel suo saggio “La fine del Rinascimento” (1922), e all’indomani della Grande Guerra e della Rivoluzione d’Ottobre, rifiuta tale costruzione. Berdyaev offre una previsione: «Le delineazioni scolastiche della storia antica, medievale e moderna stanno rapidamente diventando obsolete e saranno eliminate dai libri di testo». Mentre la costruzione tripartita della storia si è rivelata piuttosto ostinata nonostante la convinzione di Berdyaev all’epoca, la testardaggine non ha comunque convalidato nulla. Berdyaev presenta le sue ragioni. La storia moderna, un termine che Berdyaev mette tra virgolette, «è ora alla fine», scrive, «e inizia qualcosa di inconoscibile, un’epoca storica non ancora nominata». Un’epoca è una rottura nella continuità. Se una nuova fase senza precedenti si fosse rotta con la modernità in modo tale che “partiamo da tutti i soliti lidi storici”, allora questo sviluppo squalifica necessariamente la modernità dalla sua pretesa di essere la fine e la convalida di tutti i processi storici. «Il mondo si sta muovendo», dice Berdyaev, «in uno stato di cambiamento».

Nel 1922 Berdyaev conosceva già il lavoro del suo contemporaneo leggermente più giovane Oswald Spengler (1880 – 1936), il cui secondo volume di “Il Tramonto dell’Occidente” apparve quell’anno. Spengler, come Berdyaev, rifiutava la costruzione tripartita della storia come una piccola presunzione di menti limitate. «Infatti», scrive Spengler nell’Introduzione al primo volume de Il tramonto (1919), «il tracciamento della storia mondiale è una nozione non provata e soggettiva che si tramanda di generazione in generazione… e questo ha bisogno di molto del poco scetticismo che fin da Galileo ha regolato e approfondito le nostre idee innate della natura». Spengler caratterizza la costruzione tripartita della storia come “uno schema incredibilmente ingenuo e privo di senso, che, tuttavia, ha dominato interamente il nostro pensiero storico”. Spengler, come Berdyaev, prevede l’abbandono della costruzione. «Le culture a venire», scrive, «farà fatica a credere che la validità di un tale schema con la sua semplice progressione rettilinea e le sue proporzioni prive di senso… non sia mai stata, del resto, mai del tutto attaccata». Posizionandosi con l’obiettivo della terza fase di un processo tripartito in tre fasi di sviluppo, la modernità cinicamente sedicente “rovina il gioco”. Spengler rileva le tracce di un’apocalisse dislocata; è “magica”, scrive, a causa del suo carattere essenzialmente religioso dell’apocalisse persiana ed ebraica e dei suoi rami successivi, “i sistemi gnostici”. La costruzione intende giustificare “le proprie convinzioni religiose, politiche o sociali” attraverso il metodo di “dotare il sacrosanto sistema trifase di tendenze che lo condurranno esattamente al suo punto di vista”.

Né Berdyaev né Spengler negano l’esistenza di una fase moderna nel continuum temporale dell’Occidente. Al contrario, sia Berdyaev che Spengler riconoscono la modernità come qualcosa che è una presenza totale e dominante, che penetra dittatorialmente in ogni angolo della vita, ma non concorda mai con la nozione di sé della modernità. Mentre la modernità si manifesta come Ragione o Illuminismo, Berdyaev e Spengler la vedono come occlusione – come una diminuzione radicale della coscienza lontana dall’essere liberatrice in qualsiasi vero senso, ma piuttosto opprimente e distruttiva. Berdyaev e Spengler vedono la modernità in termini negativi, come causa di violente convulsioni. I due scrittori concordano anche sulle origini della modernità, di cui attribuiscono, forse sorprendentemente, al XII secolo il primo splendore. Sia Berdyaev che Spengler, citano l’opera del monaco Gioacchino da Fiore come presagio della moderna tendenza a chiudere la storia, inducendola in un vicolo cieco nel momento in cui consuma il presente. Sia Berdyaev che Spengler rivedono nella visione ermetica di Gioacchino gli sguardi iniziali di quella che generalmente considerano la prima fase distintiva della modernità: il cosiddetto Rinascimento delle città-stato italiane a partire dal XIV secolo. Naturalmente, né Berdyaev né Spengler interpretano il Rinascimento come la modernità. Qual è allora il vero carattere del Rinascimento? E qual è il vero rapporto del Rinascimento con la dissoluzione culturale dominante dei secoli moderni, secondo i due pensatori?

Il Rinascimento di Berdyaev

Due sconvolgimenti catastrofici – la sanguinosa guerra in trincea e l’altrettanto sanguinosa imposizione del regime bolscevico alla Russia – spinsero Berdyaev a contemplare un nuovo significato del Rinascimento. Queste stesse due rivolte informano anche profondamente la contemplazione di Berdyaev, nella misura in cui vede in esse i perversi risultati finali del Rinascimento stesso. Berdyaev ha commentato il Rinascimento e il suo rapporto con le ultime sottofasi della modernità nel corso della sua carriera. Il settimo capitolo de Il senso della storia (1936), ad esempio, assume il titolo, “Il Rinascimento e l’umanesimo”, e il capitolo successivo il titolo, “La fine del Rinascimento e la crisi dell’umanesimo”. Berdyaev scrive in questo ottavo capitolo che “l’era in cui stiamo entrando è per me sinonimo della fine del periodo rinascimentale nella storia”. Nel quarto capitolo de Il destino dell’uomo nel mondo moderno (1935), Berdyaev aveva scritto gnomicamente che “La fine del Rinascimento si avvicina”. Vuol dire che la modernità si avvicina all’ora della sua conclusione – sia nel senso della sua inevitabile auto-abolizione, sia nel senso che presto avrà rivelato, attraverso i suoi effetti finali, la sua essenza e, quindi, anche la sua arroganza e nichilismo essenziale. L’autocataclisma della modernità, che naturalmente potrebbe prolungarsi in modo angoscioso, costituirà anche l’autocataclisma della filosofia umanista, la dottrina arrogante ma erronea nata dal Rinascimento su cui la civiltà occidentale ha cercato senza successo di affermarsi. Il primo capitolo di un libro precedente, La fine del nostro tempo (1933), assume un titolo familiare, “La fine del Rinascimento”. Grazie allo sforzo erculeo di padre Stephen Janos di Mohrsville, Pennsylvania, che si impegnò a fornire traduzioni in inglese per tutti i libri e gli articoli di Berdyaev che fino a quel momento ne erano privi, i lettori che non avevano familiarità con il russo potrebbero ora scoprire che il primo capitolo di La fine del nostro tempo è iniziato come lo stesso saggio a sé stante che il presente studio ha già citato nel suo paragrafo di apertura, nel senso che la costruzione della storia come antica, moderna e medievale è intrinsecamente dubbia ed egoistica.

I numerosi altri saggi con cui Stephen colloca “La fine del Rinascimento” nella sua antologia degli scritti occasionali di Berdyaev dal 1914 al 1922 – Attraverso l’abisso della guerra e delle rivoluzioni (2017) – rendono evidenti i contesti biografici e storici dell’interesse di Berdyaev per la rottura con il mondo medievale. Berdyaev interpretò la guerra in termini religiosi e filosofici come l’apocalisse della modernità; come rivelatore di processi patologici a lungo nascosti all’opera nel sovvertire le ridotte vestigia del cristianesimo. La guerra è il risultato di una rottura avvenuta secoli prima. «Il mondo europeo fraudolento e la pace europea non meno fraudolenta», scrisse Berdyaev nel 1914, «erano destinati a portare a questo incendio». Secondo Berdyaev, «Il mondo europeo era qualcosa di falso, un mondo illusorio, dietro il quale si nascondevano ostilità e odio infuriati e una sporca avidità». Berdyaev, allo stesso tempo, distinse la Russia dall’Occidente, riconoscendo allo stesso tempo che l’Occidente aveva influenzato la Russia. I saggi degli anni della metà della guerra, 1915 e 1916, rivelano uno scrittore patriottico che sostenne adeguatamente la monarchia e sperava che la lotta con la Germania avrebbe stimolato una rinascita spirituale nella Rodina. All’inizio del 1917, con l’abdicazione dello Zar, per Berdyaev arriva un cambiamento. Le sue parole provocano lo shock dell’imprevisto: «Nel corso di diversi giorni, con incredibile facilità e assenza di danni, si è verificato [il] più grande… evento della storia russa». Il danno si sarebbe presto fatto sentire, ma Berdyaev conosceva la causa di questa “caduta del santo tzarato russo”. Sotto la pressione della guerra, “il sacro tzarato fu apposto alla materialità” e “in essa lo spirito fu asservito alla materia”.

Qualunque sia la misurata speranza che Berdyaev inizialmente concesse al bolscevismo, scomparve rapidamente. Berdyaev ha individuato in modo allettante nella Rivoluzione “una religione invertita, una pseudo-religione”. Nell’anno 1922, quando apparve “La fine del Rinascimento”, Lenin espulse Berdyaev insieme ad altri intellettuali dissidenti dall’Unione Sovietica. Berdyaev aveva scritto “La fine del Rinascimento” a Mosca, lo aveva pubblicato come opuscolo a San Pietroburgo e lo aveva ristampato in un’antologia autopubblicata a Berlino nel 1923. “La fine del Rinascimento” articola la reazione di Berdyaev a questi colossali eventi, sia personali che storici. In “La fine del Rinascimento”, Berdyaev estende la sua diagnosi, o quale potrebbe essere la sua eziologia, dello spasmo violento che affligge la scena globale. Poiché i fini sono, per legge della teleologia, indissolubilmente legati agli inizi, l’investigatore individuerà la causa dell’enormità profondamente radicata nel passato, in un’agenda che doveva risultare l’opposto di quello che ha generato. L’umanesimo, che mirava ad esaltare ed elevare l’uomo, lo umiliò e lo massacrò. L’umanesimo si è manifestato nel meccanismo; ha smembrato l’immagine dell’uomo e ne ha sparso le parti fino agli angoli più remoti. L’umanesimo ha cancellato l’immagine dell’uomo cancellando l’immagine di Dio nell’immagine dell’uomo, dopo di che si presumeva che l’alterazione dell’uomo avrebbe sostituito Dio. L’uomo diventerebbe simile a Dio ed eserciterebbe poteri simili a Dio per rimodellare la Creazione Divina. Il Dux che avrebbe inaugurato l’Era dello Spirito Santo nel futuro speculativo di Gioacchino sarebbe tale uomo. Il condottiero del XV secolo Sigismondo Pandolfo Malatesta si considerava probabilmente tale uomo. Berdyaev avrebbe affinato la sua comprensione di questa lunga catena di causalità spirituale nei suoi scritti successivi, ma nel saggio del 1922 i lettori si trovano di fronte a un’intuizione cruda.

Il saggio di Berdyaev si concentra sull’orrore insito nella prospettiva della totale dissoluzione dell’ordine di civiltà: «Le persone, in sintonia con ciò che verrà, hanno da tempo sentito l’inizio delle catastrofi e hanno visto i loro sintomi spirituali sotto le insidie degli aspetti esterni della trappola di una vita ordinata e pacifica», affinché «le fondamenta eterne del mondo europeo fossero scosse». Soprattutto l’idea di progresso, motto legittimante della modernità, ne attestò improvvisamente la frode; il dominio dell’uomo sulla natura si è rivelato essere solo l’incapacità omicida dell’uomo di raggiungere il dominio di sé – o di mantenere un dominio di sé che, in un’età precedente, possedeva. Una certa acuta percezione associata alla religione e alle arti prevedeva il disastro, ma i suoi avvertimenti non furono ascoltati. Nella perfezione di meccanismi come l’aereo, l’artiglieria e il carro armato, già previsti da Leonardo da Vinci più di cinquecento anni fa, l’Occidente produceva gli strumenti che si rivoltavano contro se stesso. «Al culmine della cultura», scrive Berdyaev, «nella creatività, nel regno dell’arte e nel regno del pensiero, la deflazione del Rinascimento si fa sentire da tempo». Berdyaev pensa senza dubbio alle critiche della Rivoluzione francese – di Edmund Burke e Joseph de Maistre – e ai pensatori religiosi russi del XIX secolo, che correlarono il declino dell’impegno cristiano con la crescente impotenza e barbarie. Per quanto riguarda ciò che attualmente avviene all cultura alta o d’élite, come l’arte e la creatività, Berdyaev osserva come «ciò che accade ai vertici della vita ha una sua espressione anche più in basso». Il Valhalla, in altre parole, si lascia contaminare dal Niflheim.

L’analisi di Berdyaev della deliquescenza del mondo europeo è ovunque ed è insieme teleologica e paradossale. Il Rinascimento era visto come un progresso verso la perfezione della vita, ma per la presunta rinascita di una fase di civiltà precedente e da tempo superata: quella del mondo classico. Tuttavia, l’autodefinizione del Rinascimento o del concomitante umanesimo non deve essere data per scontata, così come l’autodefinizione della modernità. «All’interno dell’umanesimo sono state individuate contraddizioni distruttive e uno scetticismo malsano ha ulteriormente indebolito l’energia umanista», scrive Berdyaev. Inoltre, «i liberi pellegrinaggi dell’uomo, non conoscendo alcun tipo di potere superiore, non solo non hanno rafforzato la sua fede in se stesso, ma hanno finito per indebolire questa fede e scuotere la coscienza dell’immagine umana». Questi “liberi pellegrinaggi” nel loro primo affiorare hanno prodotto un enorme senso di libertà e ottimismo, è vero; ma non costituirono uno sviluppo semplice e positivo. Al contrario, secondo Berdyaev, implicavano anche uno sviluppo puramente negativo. L’uomo rinascimentale si ribellò al cristianesimo del medioevo; egli “voleva creare e ordinare la vita senza alcun aiuto superiore” e finì per “allontanarsi dal centro religioso” della dispensa medievale. Il gesto era una smentita, ma l’uomo rinascimentale era convinto del suo carattere positivo. Il discendente dell’uomo rinascimentale del XX secolo sostiene questa opinione, che Berdyaev considera totalmente sbagliata.

«Nella vanità dell’umanesimo», come sostiene Berdyaev, «c’era un errore fatale e un autoinganno». Questo errore, costituendo “il vero e proprio punto più basso della fede umanista”, nascondeva “la possibilità”, apparendo ora come la pervietà, “di un rinnegamento dell’uomo e della sua caduta”. Alienandosi dal “centro spirituale”, l’umanista si è reso “sempre più superficiale”. Evacuato il suo centro organico, l’umanista ha chiesto nuovi “pseudo-centri”. Nei disegni anatomici di Da Vinci e nelle successive ricerche e disegni di Vesalio, mentre ci sono progressi nella comprensione dettagliata della fisionomia e della fisiologia umana, c’è anche una tendenza alla materializzazione grossolana il cui accompagnamento inevitabile è l’altra tendenza alla despiritualizzazione. Tuttavia, all’inizio, come osserva Berdyaev, il Rinascimento produsse «una splendida e senza precedenti fioritura della creatività umana». Berdyaev aggiunge subito una qualificazione importante. Le prime manifestazioni del Rinascimento si ebbero nel contesto di una cristianità ancora vitale. Appartiene alla vanità dell’umanesimo l’idea che il XIV e il XV secolo abbiano prodotto una resurrezione del paganesimo. Berdyaev lo nega. «Anche un uomo così tipico del Cinquecento, un uomo della tarda parte del Rinascimento, non era solo un pagano, era anche un cristiano». Eppure quello di Cellini era un paganesimo qualificato. Gli uomini del Rinascimento non avrebbero mai potuto, infatti, essere veramente pagani, poiché uscivano da una società che aveva attraversato il processo di cristianizzazione: «Il Rinascimento iniziò nel profondo medioevo e le sue prime fondamenta furono interamente cristiane». La pretesa di un nuovo paganesimo richiedeva quindi un certo grado di autoinganno.

Secondo Berdyaev, «l’umanesimo ha liberato l’energia umana ma non ha elevato l’uomo spiritualmente»; al contrario, «lo lasciava spiritualmente vuoto» nel divario tra la sua pretesa di paganesimo, sempre alquanto insincero, e la sua alienazione dal cristianesimo. In un clima di indifferenza religiosa, i “pellegrinaggi gratuiti” del primo Rinascimento ottimista ma essenzialmente autoingannevole del XV secolo divennero gradualmente una coazione a “vagare in superficie”. Presto la superficie diventa qualsiasi cosa nella sua profondità senza profondità. «Alla base primordiale della storia moderna», scrive Berdyaev, «c’è una spaccatura tra l’uomo e le profondità spirituali, un allontanamento dalla vita dal suo significato». Seguì l’alienazione del centro spirituale – cioè di Dio – che al posto della Creazione l’uomo potesse impossessarsi del cosmo in modo tale «che forse tutta la vita diventi una questione di artificio». Berdyaev non menziona le varie utopie che emergono nel tardo Rinascimento e sull’orlo dell’Illuminismo – L’eponima Utopia di Moro, la Nuova Atlantide di Bacon e la Città del Sole di Campanella – ma sicuramente ci ha pensato. Questi schemi per comunità basati esclusivamente su ragioni mal concepite anticipano il socialismo programmatico trattando l’essere umano come un’unità o una funzione in un progetto o un’opera. Il Rinascimento produce molto naturalmente un’Illuminismo ancora più superficiale. Berdyaev propone una legge. Nella storia allargata del Rinascimento, secondo lui, «si dispiega la dialettica autodistruttiva dell’umanesimo – l’affermazione dell’uomo senza Dio, e contro Dio, la negazione dell’immagine e della somiglianza di Dio nell’uomo che porta alla negazione e distruzione dell’uomo, e l’affermazione del paganesimo contro il cristianesimo che porta alla negazione e alla distruzione dell’Antichità».

E che dire del carattere terminale del così estenuato Rinascimento di Berdyaev nella prima parte del XX secolo? Il progetto razionale di costruire una comunità utopica che una volta costruita rimarrà in stasi ha qualcosa di simile a una macchina. Il simbolo centrale del tentativo giacobino di costruire una comunità utopica che una volta costruita sarebbe rimasta in stasi era la ghigliottina, una macchina per uccidere le persone in modo razionale ed efficiente. Berdyaev collegava le articolazioni del livello superiore di qualsiasi società con il carattere che la società assume alla sua base. Quando Berdyaev ricerca filosofia e arte tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, trova una situazione di generale sottomissione la cui miseria spiega la sua “dialettica dell’umanesimo”. Guarda le avanguardie dell’arte e della letteratura. Il Futurismo, infatti, abolì la Venere di Botticelli e il David di Michelangelo e li sostituì con le macchine di Da Vinci. Nel Futurismo “l’immagine dell’uomo e il corpo dell’uomo muoiono… lacerati e lacerati da vortici disumani”. Anche il cubismo, ponendo tutto su un piano senza profondità, “sposta l’immagine artistica dell’uomo”. Sulla filosofia: «Il positivismo è stato generato dallo spirito del Rinascimento, ma in lui questo spirito si è esaurito». Il positivismo tratta il pensiero meccanicamente. Nel suo emergere, nella Religione dell’umanità di Comte, il positivismo ha assunto la forma di un progetto utopico con un obiettivo globale. Non sorprende che, data la teoria di cui sopra, la prassi di seguito sia barbara. O forse è il contrario.

«Il Rinascimento è iniziato con un’affermazione dell’individualità umana creativa», scrive Berdyaev verso la fine del suo saggio, ma «si è concluso con una negazione dell’individualità umana creativa». La dichiarazione esercita più autorità quasi un secolo dopo che Berdyaev l’ha fatta rispetto a quanto non fosse originariamente nel 1922. Nel 2018 la creatività è in gran parte assente; le arti sono state industrializzate e il prodotto dell’industrializzazione è la ripetizione del cliché politicamente corretto. L’industria cinematografica produce centinaia di film ogni anno, ognuno dei quali prevedibile e prevedibilmente nichilista. Si può entrare in una libreria in franchising e confrontarsi con diecimila titoli, nessuno dei quali ha il minimo fascino per una persona istruita. L’istruzione a tutti i livelli è diventata un’impresa criminale di indottrinamento alla legge e risentimento. Come sottolinea Berdyaev, l’atomizzazione della società e la collettivizzazione della società avvengono simultaneamente. Da una parte c’è il consumismo insipido; dall’altro, la politica dell’identità. Altre affermazioni da “La fine del Rinascimento” sembrano ugualmente preveggenti e hanno acquisito forza nel tempo. Si consideri ciò che Berdyaev chiama “la passione per l’uguaglianza”. Essendo davvero il “pathos dell’invidia”, l’egualitarismo soffre dell’acuta “impossibilità di affermare un essere in sé”. L’ossessione socialista per l’uniformità quantitativa nello status e negli esiti equivale quindi solo a “una passione per il non essere”. C’è una soluzione alla dissoluzione nella dimensionalità nichilista dilagante? «L’umanesimo deve essere vissuto fino alla fine», dice Berdyaev, credendo anche in una restaurazione oltre la prova. Tuttavia, come ogni crollo dell’arroganza, come ogni catastrofe prometeica, i parossismi terminali dell’umanesimo operano come una sorta di rivelazione – o più precisamente come confessione obbligata dell’umanesimo della propria vacuità e tardiva futilità.

Il Rinascimento di Spengler

La teoria del Rinascimento di Spengler trova il suo contesto nella sua più ampia teoria delle Grandi Culture. Ogni Grande Cultura ha il carattere di una monade e si sviluppa secondo uno schema organico di nascita, maturità, senilità e morte. Il senso della storia di Spengler differisce da quello di Berdyaev in quanto mentre Berdyaev credeva in una reale continuità dalla civiltà classica alla civiltà medievale, Spengler non credeva in una tale continuità reale, ma solo nella proposizione che una particolarità dell’Occidente era che fosse interessato alle altre Grandi Culture e trovò ragioni per ammirarle, non ultima la civiltà greco-romana. Eppure, non riusciva davvero a capire cosa ammirasse. Questa ammirazione, nonostante fosse straordinariamente motivata, non ha mai significato che l’Occidente comprendesse il mondo classico come il mondo classico aveva inteso se stesso. Al contrario, sostiene Spengler, l’idea dell’Occidente di poter vedere attraverso gli occhi classici, o che sia il successore del mondo classico, è in gran parte un’illusione. C’è un divario insormontabile tra questi due mondi. Naturalmente, lo stesso Spengler credeva di comprendere il mondo classico come un occidentale potrebbe. Forse ha capito. Essenzialmente un comparatore di culture, Spengler ha sviluppato un occhio acuto per le differenze e le ha affermate con sicurezza persuasiva. Berdyaev, aderendo ai precetti cristiani, non poteva ammettere la disperazione nonostante la sua critica aspra e persino condannante della modernità. Spengler, invece, mentre condivideva con Berdyaev la convinzione che il XX secolo avesse inaugurato un’era di corruzione e nichilismo, rimase agnostico e aspettò solo che il male peggiorasse. Democrazia e nichilismo significavano la svolta dell’Occidente in peggio. Qualcosa in più va detto sulla teoria delle grandi culture e della storia di Spengler.

Spengler distingue due categorie di storia che, secondo lui, il tipico storico moderno ha completamente confuso. C’è e non esiste ancora, sostiene Spengler, una storia universale dell’umanità. Un incollatore ambizioso potrebbe assemblare una Storia sintetica dell’umanità dalla paleontologia, dall’archeologia e dai primi documenti scritti, ma una tale costruzione speculativa rappresenterebbe un enigma epistemologico. I popoli ampiamente separati del passato globale non avevano idea di un’umanità globale o universale; essi, quindi, non hanno mai pensato a se stessi come partecipanti a una cosa del genere. Nella misura in cui la storia consiste nella registrazione dell’intenzione umana, la storia universale manca di questa intenzione. Spengler vede la nozione, quindi, come chimerica e tipicamente moderna. Ci sono davvero solo storie, al plurale, ciascuna appartenente esclusivamente ad una delle Grandi Culture non comunicanti. Sebbene Spengler identifichi otto Grandi Culture, concentra il suo interesse su solo tre: apollinea, magica e faustiana. Magica si riferisce ai mondi persiano e del Vicino Oriente messi insieme, i cui rappresentanti sopravvissuti ma morenti sono l’ebraismo, l’Islam e il cristianesimo arabo. Faustiana, con la sua pronunciata connotazione folcloristica, chiamata anche da Spengler gotica, si riferisce all’Occidente, iniziata intorno all’anno 1000 senza alcun rapporto causale con Atene o Roma. Come suggerisce il titolo di Spengler, il suo interesse risiede principalmente nell’Occidente, che secondo lui è entrato nella sua fase inevitabile, non proprio dissoluzione, ma ossificazione e declino. Per Spengler, la parola cultura designa un organismo vivente; mentre la parola civiltà designa l’età fragile e la morte fredda o ciò che Spengler ama chiamare “inverno”. Spengler misura la durata della vita di qualsiasi Grande Cultura a circa mille anni.

La separazione tra cultura d’origine e causalità di Spengler scandalizzerà chi si rivolge a lui dall’antropologia positivista e dalla costruzione piuttosto meccanica e tripartita della storia. Le Grandi Culture – che, per sottolineare il punto, esistono come monadi e non formano continuità – iniziano spontaneamente, quasi ex nihilo, in esperienze apocalittiche che imprimono una personalità su un popolo e rivelano a quel popolo il loro rapporto con il loro paesaggio natale. L’Epifania dà a un popolo il suo “Fato”, una parola su cui Spengler spesso capitalizza. «Nel Destino-Idea», scrive Spengler, «l’anima rivela la sua longevità mondiale, il suo desiderio di elevarsi alla luce, di realizzare e attualizzare la sua vocazione». Spengler caratterizza il mondo classico sotto la categoria-idea dei corpi materiali distribuiti nello spazio. Apollo o Afrodite nuda esemplificano l’architettura classica e quindi anche dorica nella sua staticità. Quando l’Impero raggiunse i suoi limiti, difese i suoi confini, ma non si avventurò mai oltre. La cultura faustiana o gotica o occidentale contrasta con quella classica. Il “simbolo principale” dell’Occidente, secondo Spengler, è “spazio puro e illimitato”. Una cattedrale gotica, come una lunga nave vichinga, balza nel cielo o all’orizzonte. «L’anima faustiana cerca un’immortalità per seguire la fine corporea, una specie di matrimonio con uno spazio infinito, e disincarna la pietra [dell’ordine classico] nel suo sistema di impulso gotico… finché alla fine nulla rimane visibile se non la profondità e la residente energia-altezza di questa auto-estensione». L’Occidente transustanzia rapidamente l’architettura nella musica polifonica come suo genere essenziale di espressione personale, da Pérotin a Bach, passando per Richard Strauss e Gustav Mahler.

La discussione di Spengler sul Rinascimento appare in Il Tramonto dell’Occidente, Volume I, nel primo dei due capitoli (VII e VIII) su “Musica e Arti plastiche”. La discussione inizia con Spengler che sottolinea nuovamente la differenza tra la visione del mondo classica e quella faustiana. Nel classicismo c’è una stretta relazione tra l’oggetto d’arte e un particolare organo di senso. Nell’esperienza dell’anima faustiana, esternandosi nei suoi oggetti d’arte, non esiste una correlazione così stretta. «Un’immagine “cantante” di Claude Lorrain», scrive Spengler, «non si rivolge realmente all’occhio del corpo, non più della musica che occupa lo spazio, nella misura in cui Bach si rivolge all’orecchio del corpo». Mentre lo stile apollineo è incarnato nella pietra, nella statua e nel tempio, lo stile faustiano cerca la smaterializzazione; vuole immediatamente esprimersi come uno spirito disincarnato che si espande attraverso lo spazio infinito e come i colori e i toni che, liberati nello spazio, si espandono senza limiti. Il classico misurato e contemplato. Gotico – sinonimo di Faustiano – “afferrò la vita nella sua interezza, penetrò nei suoi angoli più nascosti”. È vero, scrive Spengler, che «la visione del mondo del barocco è essenzialmente una continuazione del gotico». La concezione standard o accademica del Rinascimento, che lo vede come il rinnovamento della vitalità culturale contro la morte del mondo gotico o medievale, ne capovolge la realtà e poi la esamina con gli occhi incrociati. Al contrario, come scrive Spengler: «L’arte del Rinascimento… è una rivolta contro lo spirito della musica faustiana forestale del contrappunto, che all’epoca si preparava a vassallare ogni forma-linguaggio della cultura occidentale. Era la logica frutto dell’aperta affermazione di questa volontà nel gotico maturo». Il Rinascimento «conservò il carattere di un semplice contromovimento; quindi rimase necessariamente dipendente dalle forme del movimento originario, e rappresentò semplicemente l’effetto di queste su un’anima vacillante».

Come spiegare questa esitazione? La tendenza espositiva di Spengler è, dopo aver provato la sua argomentazione da solo, solo per riferire le sue conclusioni al suo lettore. Forse è così semplice che alcuni uomini sono all’altezza di una sfida, mentre altri si accovacciano davanti ad essa. Il Rinascimento diventa, nella narrativa di Spengler, una sorta di ritiro spaventato di fronte a un dinamismo spirituale in espansione. È difficile da capire: un tempio dorico non terrorizza mai, ma gli svettanti contrafforti e le guglie di una cattedrale gotica portano con sé la qualità intimidatoria del sublime. La monodia classica lenisce lo spirito, ma anche la primitiva polifonia di Pérotin induce una vertigine associata allo spazio infinito. Rifiutando l’ossessione gotica di sospendere i limiti in tutte le dimensioni, il Rinascimento, secondo Spengler, «mancava di una reale profondità, ideale o fenomenale». La storia accademica gonfia figure chiave dal Rinascimento a giganti delle conquiste artistiche e filosofiche. Spengler, ponendo figure chiave come Pérotin e gli architetti delle cattedrali fianco a fianco con Dante e gli scrittori dell’Edda, e accanto a Gioacchino da Fiore e San Francesco, li osserva come al microscopio: «Basta pensare alla passione prorompente con cui il sentimento gotico del mondo si è scaricato sull’intero paesaggio occidentale, e vedremo subito quale tipo di movimento fu che una manciata di menti selezionate – studiosi, artisti e umanisti – iniziò intorno al 1420». Si noterà che Spengler come Berdyaev include l’umanesimo come uno dei prodotti significativi del Rinascimento, sebbene la sua lista sia al terzo posto tra le categorie.

Per Spengler il Rinascimento è poco più che “un movimento antigotico e una reazione contro lo spirito della musica polifonica”. Spengler esercita anche la sua abitudine di trattare il Rinascimento come l’equivalente di una moda moderna: «Quando padroneggiò alcune arti della parola e dell’immagine, perse la vite»; aveva, tuttavia, «alterato i modi di pensare e di sentire la vita dell’Europa occidentale in un colpo solo». Spengler attribuisce ai fiorentini l’influenza dell'”abito e del gesto” europeo nei secoli successivi, un’influenza ancora oggi in mostra nel fenomeno della Fiera Estiva Rinascimentale, di cui il Nord America ne ha molte ogni anno. Ma nessuno attribuisce profondità spirituale a tali questioni. Sono solo per divertimento. Lo stile rinascimentale sarebbe stato sostituito dal barocco. A proposito, Spengler pone Dante da una parte e Michelangelo dall’altra fuori dai limiti temporali del singhiozzo fiorentino. Spengler dipinge il Rinascimento come imitativo e appropriativo, con l’ulteriore osservazione critica che i suoi praticanti non abbiano mai capito cosa imitassero e se ne appropriassero alle loro condizioni. Le immagini classiche servivano agli uomini del Rinascimento semplicemente come una sorta di contro-immagine del gotico dominante. Si può vivere questo gotico dominante in una profusione di espressioni «dall’idea del cattolicesimo alla teoria dello Stato del Sacro Romano Impero, dal torneo cavalleresco alla nuova forma della città, dalla cattedrale alla campagna casa, dalla costruzione della lingua all’abito da sposa della fanciulla del villaggio, [e] dalla pittura a olio alla musica di Spielmann».

Indipendentemente dal fatto che, come sostiene Spengler, il Rinascimento significasse solo «uno scoppio di profonda discordia nella cultura [gotica]» o «una posizione che l’anima cerca di prendere contro il destino che finalmente comprende», e se non ha avuto effetti reali o duraturi; perché l’impressione opposta si è rivelata così duratura, tanto che ancora nel XXI secolo le persone colte credono che il Rinascimento fosse epico e duraturo nella sua efficacia, immaginando di potere ancora partecipare ad esso? In questa materia, l’argomento di Spengler cade in un grado di oscurità, come se sentisse il bisogno di eludere una difficoltà. Non affronta mai direttamente la questione, ma continua a caratterizzare il Quattrocento in vari modi disarmanti per rafforzare il suo punto di vista. L’arte rinascimentale è in realtà gotica, ma “ammorbidita nell’acclimatazione” dal paesaggio soleggiato del sud. L’arte rinascimentale, che ha inventato la prospettiva, è dominata dall’idea di spazio infinito come il gotico settentrionale. L’Italia al di sotto dell’Appennino era storicamente nel regno degli aspetti bizantini e moreschi del mondo del tardo magico, quindi le immagini rinascimentali rappresenterebbero la mera persistenza morente, la “pseudomorfosi”, di questa visione del mondo non gotica. L’arte rinascimentale «non è classica, ma è un sogno dell’esistenza classica, l’unico sogno dell’anima faustiana in cui ha potuto dimenticare se stessa». Non sarà passato inosservato che queste proposte plurali si contraddicono a vicenda in diversi modi irritanti. Forse, tuttavia, una risposta alla domanda si offre in un modo che Spengler, incline a un’eccessiva intellettualizzazione, ha ignorato, sebbene l’abbia implicitata trasversalmente.

L’indizio sta nella precedente descrizione di Spengler dell’arte rinascimentale come superficiale ma piacevole. L’arte plastica del Rinascimento – si pensi a Sandro Botticelli – sottolinea una qualità illustrativa in grado di esercitare un forte richiamo su un gusto estetico non particolarmente sofisticato. Questo non vuol dire che un esame erudito non rivelerebbe aspetti più sottili, ma solo che l’immediatezza della tavolozza dei colori e l’abbigliamento fragile delle giovani e sorridenti figure femminili preparano l’accoglienza popolare. Questa risposta è in linea con l’elogio di Spengler del gotico, che, invocando lo spazio infinito, la luce come spirito e “i colori che diventano toni”, conferisce alla fortezza volante e alla fitta rete di polifonia una sublimità intimidatoria. Le implicazioni metafisiche e visionarie della tela gotica o della composizione musicale gotica sfuggono e addirittura alienano la sensibilità popolare, che tuttavia merita i suoi piaceri. Questo spiegherebbe perché Botticelli, ad esempio, conserva la sua popolarità, mentre Jacopo Tintoretto sopravvive solo tra gli specialisti dell’arte. Nella scuola nordica della pittura a olio, scrive Spengler, «l’arte del pennello rivendica la parentela con lo stile della cantata e del madrigale», e «la tecnica degli oli diventa la base di un’arte che cerca di conquistare lo spazio e dissolvere le cose in quello spazio». Perciò la sensibilità popolare indubbiamente si ritrasse dall’improvvisa insinuazione di vertigini. «Siamo stati noi», scrive Spengler, il che implica gli uomini che partecipano più pienamente all’anima faustiana, «e non gli Elleni o gli uomini dell’alto Rinascimento che apprezzavano e cercavano le alte vette delle montagne per l’ampiezza di vedute illimitate che avevano». Il “noi” si riferisce in modo restrittivo solo a pochi senza paura. Nell’operazione della Grande Cultura, i pochi articolano pulsioni generative, mentre i molti si limitano a condurre la propria quotidianità.

Per Spengler, quindi, il Rinascimento consisteva in un momentaneo spasmo di dissenso rispetto al dinamismo della Grande Cultura – faustiana o gotica – che gli dava il suo contesto. Il Rinascimento rappresentò una protesta capricciosa che mancava di sincerità per sostenersi e svanì rapidamente. L’affermazione di Spengler secondo cui il Rinascimento non ha lasciato in eredità effetti duraturi, tuttavia, necessita di una piccola precisazione. Se è vero, come dice Spengler, che «la gente comune è infastidita da Mozart e Beethoven, e considera la musica come qualcosa di cui si ha o non si ha voglia», ed è anche vero che «l’arte faustiana non è, e in sostanza non può essere “per tutti”»; tuttavia, il tutto fa la sua esigenza. Si potrebbe giustamente aggiungere alla valutazione di Spengler del Rinascimento che, nonostante la sua spasmodica superficialità, ha scoperto la formula che da allora ha fatto appello al cipiglio del tutto. Ma anche a questa proposta si potrebbe aggiungere qualcosa: che, scoprendo la formula dell’arte non filosofica, il Rinascimento ha anche posto le basi – o forse ha scavato la trincea – per una successiva e voluta arte antifilosofica, per un kitsch posteriore, e per una successiva super-volgarizzazione dell’arte che porta a distorsioni pornografiche dell’anti-arte nel XX e XXI secolo. Al contrario, scrive Spengler, «il gotico stesso [è stato] esoterico sin dal suo inizio – testimoni Dante e Wolfram». Il Rinascimento inaugura la ribellione dell’incomprensibile contro i bisogni incomprensibili incarnati in qualsiasi ordine che cerchi di sintonizzarsi con il cosmologico. Nei capitoli successivi di Il Tramonto, Volume II, e nel suo Anni della Decisione (1934), Spengler dimostra di comprendere queste cose. Se avesse riscritto il suo resoconto del Rinascimento, avrebbe potuto anche modificare il suo giudizio a questo riguardo.

Confronto tra Berdyaev e Spengler

Le due visioni rinascimentali – quella di Berdyaev da un lato e quella di Spengler dall’altro – sembrano incompatibili tra loro. Per Berdyaev, il Rinascimento nomina una rottura nella continuità civile le cui conseguenze successive diventano sempre più sovversive dell’ordine e della creatività. Per Spengler, il Rinascimento nomina una mera rottura, per così dire, nel destino faustiano o gotico della cultura, che finì quasi non appena iniziò e non lasciò effetti duraturi. Anche i contesti delle due descrizioni differiscono notevolmente. Berdyaev vede la civiltà classica come causalmente collegata al cristianesimo medievale ed entrambi come formatrice, a modo loro, della modernità, sebbene il rapporto di quest’ultima con i suoi precursori sia in modalità di negazione o rifiuto. Spengler considera le sue Grandi Culture come monadi che si influenzano a malapena a vicenda. Tuttavia, sia Berdyaev che Spengler rifiutano la costruzione tripartita della storia come un’indegna semplificazione della mente sottile; entrambi vedono Gioacchino da Fiore come un importante precursore del Rinascimento la cui dottrina delle Tre età anticipa molto più tardi la costruzione tripartita della storia. In alcune caratteristiche le due visioni convergono e offrono la promessa, attraverso questa convergenza, di una possibile complementarietà. La discussione suggerisce, ad esempio, che la lettura tra le righe del Rinascimento di Spengler può effettivamente avere avuto un certo effetto duraturo: l’istituzione di un genere d’arte non minaccioso perché non metafisico e non filosofico per il consumo della massa. Spengler, invece, si limita nella sua discussione sul Rinascimento in gran parte alle arti. Berdyaev, dal canto suo, si sofferma sulle implicazioni teologico-filosofiche del Rinascimento. Nell’arte rinascimentale Spengler vede una ribellione contro, o una paurosa svolta dalle profondità gotiche. Nella dottrina del Rinascimento – quella dell’umanesimo – Berdyaev vede un fatale rifiuto di ciò che chiama il centro religioso della vita, da cui anche l’origine della moderna crisi atea.

Spengler definisce il Rinascimento non filosofico. All’obiezione che per chiamare il Rinascimento non filosofico sarebbe necessario ignorare una buona dose di testimonianze letterarie – l’emergere, ad esempio, del neoplatonismo fiorentino sotto l’influenza degli intellettuali bizantini nel loro esilio italiano dopo la caduta di Costantinopoli – Spengler potrebbe invocare la sua idea che anche questo fosse stato preso in prestito senza alcuna reale comprensione e che fosse solo un’influenza letteraria. Gli indici né del primo né del secondo volume di Il Tramonto contengono eventuali elenchi significativi circa l’umanesimo; c’è un solo riferimento nell’indice del secondo volume, nessuno nel primo. Va ricordato, tuttavia, che, rifiutando la costruzione tripartita della storia, Spengler l’ha collegata allettantemente alla visione del mondo dei Magi e ai “sistemi gnostici”. Si consideri sotto l’etichetta categorica di Spengler uno dei documenti più noti dell’umanesimo del Quattrocento, l’Orazione sulla dignità dell’uomo.(1486) di Pico della Mirandola. La preghiera è spesso citata come un documento principale nell’ascesa della presunta Epoca Oscura medioevale. La Preghiera inizia invocando la saggezza di un musulmano, Abdallah il Saraceno; fa rapidamente riferimento a Ermes Trismegisto e cita tra gli altri Pitagora, Esculapio, Orfeo e Zoroastro. Il suo sincretismo è degno di nota. Pico offre una teoria antropologica nella Preghiera, che attribuisce a Dio come Creatore – ma che Dio, appunto, nella sua sincretica proliferazione di nomi esotici, alcuni divini e altri umani, ha reso poco chiara. L’umanesimo, come osserva Berdyaev, è l’antropologia epurata dal suo legame con il divino. Cosa dice esattamente Pico?

Nello pseudo-mito di Pico, che è solo debolmente legato alla Genesi biblica, Dio o “Il Grande Artigiano”, dopo aver completato il cosmo, ha bisogno di un tipo speciale di creatura che lo dimori e lo apprezzi e lo comprenda. «Il Grande Artigiano ordinò», come dice Pico, «che questa creatura che non avrebbe ricevuto nulla per sé avesse il possesso in comune di qualsiasi altra creatura di qualunque natura gli fosse stata data». Nota come Pico elude l’affermazione della Genesi secondo cui Dio ha creato l’uomo a sua immagine. L’immagine di Dio appartiene all’uomo nella Genesi, ma Pico sente il bisogno di sopprimerla. Pico continua: «Egli [cioè Dio] fece dell’uomo una creatura di natura indeterminata e indifferente, e [lo mise] in seno al mondo». Gli studiosi potrebbero aver sottovalutato il radicalismo della riconfigurazione antropologica di Pico, o meglio, essi stessi sono stati distratti dall’abolizione dell’antropologia di Pico. Se l’uomo fosse “indeterminato” e “indifferente”, non possederebbe la natura. Le parole che ora Pico mette in bocca a Dio rafforzano l’obliterazione da parte dell’oratore dell’uomo come essere determinato che, nella sua determinazione, poteva essere studiato e compreso da lui stesso. Pico fa dire a Dio ad Adamo: «Non ti diamo luogo fisso dove vivere, nessuna forma a te peculiare, né alcuna funzione che sia solo tua. Secondo i tuoi desideri e il tuo giudizio, avrai e possederai qualsiasi luogo in cui vivere, qualsiasi forma e qualunque funzione tu scelga». Dio aggiunge: «Tu, senza limiti né confini, potrai scegliere tu stesso i limiti e i confini della tua natura».

Spengler non affronta la prima letteratura dell’umanesimo, ma Berdyaev non riesce, almeno nel suo saggio “La fine del Rinascimento”, ad affrontare Pico. È un peccato, anche perché Pico esemplifica così perfettamente le affermazioni che Berdyaev fa in questo saggio sull’umanesimo. Se gli uomini fossero indeterminati, indifferenti e senza radici (“avranno e possederanno qualsiasi posto dove vivere”), come dichiara Pico, quale sarebbe l’uomo, come specie? L’uomo sarebbe una specie anomala ridotta a un’unica qualità, la libido. L’umanità difficilmente sarebbe simile a Dio, ma sarebbe crudamente convinta del suo status divino; o meglio, sarebbe demoniaco. Non sentendo limiti, non poteva avere altro senso di se stesso. Consisterebbe solo nei propri appetiti. Qualcuno ha notato la palese contraddizione nell’antropologia di Pico? Il Grande Artigiano aveva bisogno di una creatura che sapesse apprezzare e capire la natura che aveva evocato con la sua Parola, ma poi l’Artigiano dice alla creatura che in realtà non ha natura, non ha funzione. Pico ne era a conoscenza? Uno degli espedienti retorici dell’Orazione è che Pico contesta l’autorità religiosa nella figura di coloro che chiama “Padri”. Un padre è, tra l’altro, come Dio, un limite: il padre significa che nessun uomo si è generato, ma ha richiesto altri per la sua generazione. L’uomo come figlio conserva l’impronta del padre, per quanto si ribelli. Tuttavia, l’Artigiano di Pico dice ad Adamo: «Puoi modellarti come vuoi». Come si può stabilire la dignità dell’uomo sull’abolizione della natura umana? Tuttavia, questo è ciò che propone il Grande Artigiano di Pico. L’incoerenza è così grande, e così assurda, che un film di Monty Python potrebbe saltare fuori dalle sue dichiarazioni come una volta Atena saltò fuori dalla testa di Zeus. Quando Pico invoca «per portare alla perfezione finale… la conoscenza delle cose divine», si unisce all’Età dello Spirito Santo di Gioacchino, in cui gli uomini raggiungeranno finalmente una completa comprensione della Scrittura.

Quattordici anni dopo “La fine del Rinascimento”, Berdyaev tornò sul suo tema in due capitoli de Il senso della storia. Tuttavia, la visione del filosofo si approfondisce. Sviluppa e arricchisce le sue scoperte precedenti. Ciò che Berdyaev ora sostiene sui successivi umanisti Friedrich Nietzsche e Karl Marx, avrebbe potuto anche discuterlo su Pico. L’appropriazione da parte di Nietzsche del mistico persiano Zarathustra collega il suo testo a quello di Pico e rivela quest’ultimo come una prima manifestazione di ciò che Berdyaev riconosce come super-umanismo e anti-umanismo. Scrive Berdyaev: «Con Nietzsche, l’umanesimo giunge alla fine della sua storia tempestosa e tragica». Berdyaev cita Così parlò Zarathustra, «L’uomo è una vergogna e una disgrazia e deve essere trasceso». Berdyaev diagnostica il culto del Superuomo di Nietzsche come il momento della trasformazione “dall’umanesimo all’antiumanesimo” e come la metatesi “in nome della quale [la modernità] ripudia l’uomo come una vergogna e una disgrazia”. L’oggetto della critica di Berdyaev – il super-umanesimo antiumano di Nietzsche – ha un sorprendente analogo contemporaneo che rivela il carattere duraturo dell’intuizione russa e la sua continua applicabilità. Nel difendere il suo lavoro di giovane donna viziata di origine asiatica, il New York Times ha ufficialmente approvato e quindi istituzionalizzato la sua percezione casualmente fanatica che i “bianchi” sono così moralmente mostruosi da meritare di essere messi fuori legge e delegittimati. La formula violenta dello scrittore e il fanatismo sicuro di sé sono paralleli alla convinzione nietzscheana che l’uomo sia una “vergogna e disgrazia” subumana. L’insieme totale dei “bianchi” si sposta semplicemente nella categoria dell’uomo; e passa alla categoria extramorale di Super-Uomo.

Berdyaev scopre nell’umanesimo una specie di seme del nichilismo che si risolverebbe nella dialettica della sua storia. Anche Spengler trova un argomento nel nichilismo, in un’opera successiva, la sua Anni della Decisione. Spengler è d’accordo con Berdyaev che le idee di progresso e di liberazione, che possono essere ricondotte all’era rinascimentale, hanno prodotto risultati opposti a quelli annunciati o previsti al loro insediamento. Tutti gli schemi di progresso e di liberazione cadono nel materialismo grezzo e iniziano a promuovere la distruzione: «E questa, in sostanza, è l’intenzione. Non cerchiamo di alterare e migliorare, ma di distruggere». Sarebbe bene ricordare l’affermazione di Berdyaev sulla guerra di classe e sull’egualitarismo – che la sua campagna trova impossibile “affermare un essere in se stessi” e che quindi equivale solo a “una passione per il non essere”. Spengler in Anni descrive il nichilismo dominante della prima metà del secolo scorso come «l’odio abissale del proletario per tutti i tipi di forme superiori, della cultura come sua essenza, della società come suo sostenitore e prodotto storico». Tutto ciò che è tradizionalmente nobile «riempie il nichilista di una rabbia monotona». Il proletario del 2018 non è il proletario del 1930. Cercatelo invano nelle fabbriche, supponendo che si trovi una fabbrica. La ricerca lo troverà probabilmente in una posizione manageriale o scrivendo per un giornale o insegnando in un college. “Furia Sorda” tuttavia lo descrive in modo molto accurato. Il suo discorso si limita a slogan che erano cliché già nel 1848, ma il suo risentimento, che è lo stesso della sua furia, è ardente. Come la donna asiatica del Times che vuole eliminare “i bianchi”, è uno gnostico, sapendo quello che sa con certezza assoluta.

La critica convergente del Rinascimento in Berdyaev e in Spengler significa forse che l’intenditore, così informato, non può più godere di Botticelli, diciamo, o dei madrigalisti veneziani? No. Restano valide le gesta di bellezza del XIV, XV e XVI secolo nelle città-stato italiane; la percezione critica della confusione nel programma dell’umanesimo non sovvertirà questa bellezza. Si può continuare a studiare Marsilio Ficino e la sua scuderia di studiosi neoplatonici che hanno prodotto un corpus affascinante, anche se più piccolo, di letteratura filosofica e trovare in lui il piacere dell’esoterismo. Il piacere, tuttavia, deve essere legato alla critica. Spesso è difficile giudicare un fenomeno nel momento del suo primo bagliore. Sia Berdyaev che Spengler – ma Berdyaev in modo più decisivo di Spengler – suggeriscono con le loro analisi dei fenomeni culturali che la comprensione degli stessi richiede una visione teleologica. Una cosa non è ciò che afferma di essere nell’esuberanza della sua nascita, ma è ciò che diventa attraverso lo svelamento dei suoi segreti più profondi nel tempo.

Traduzione di Alessandro Napoli

Fonte: legio-victrix.blogspot.com

Exit mobile version