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La diagnosi del declino occidentale (vista da Spengler)

Di Gennaro Malgieri

Cento anni fa l’autore tedesco pubblicava il monumentale saggio “Il tramonto dell’occidente”. Ora Aragno pubblica il secondo volume dell’opera.

La mirabile descrizione della decadenza delle forme organiche è l’affresco che Oswald Spengler offre al lettore nelle pagine del secondo volume del Tramonto dell’Occidente, pubblicate nel 1922, cento anni fa. Oggi si ripropongono in tutta la loro preconizzata drammaticitàLe “prospettive di storia universale” nelle quali l’Autore indugia, con riferimenti coltissimi nascosti nelle pieghe dei tempi delle civiltà, sono quelle tra le quali da qualche millennio, noi, eredi del faustianesimo in liquidazione, ci aggiriamo smarriti talvolta contemplando compiaciuti il nostro stato di paria. La pianta nata, cresciuta, sviluppatasi, sta morendo. Il morfologo ha l’obbligo morale di sottrarci alle illusioni. Le civiltà sono piante. L’uomo è una pianta. Il suo inizio è la sua fine. E con lui finiscono per poi  rinascere  le Kultur, ma la prospettiva non ci evita di convivere con la Zivilisation il nostro estremo destino. 

Le civiltà, come tutte le forme vitali, appartengono al “mondo organico” e dunque rispondono ad un principio biologico. Perciò sono dotate di un’anima che le caratterizza. Avere una storia, coltivare un destino vuol dire aderire ai dettati dell’anima. Nel periodo ascendente di una civiltà (Kultur) predominano i valori spirituali e morali che danno il senso all’esistenza degli esseri che vivono secondo i dettami del diritto naturale; l’esistenza comunitaria è organizzata in ordini, caste, gerarchie; nei cuori dei popoli domina un profondo sentimento religioso che pervade l’arte, la politica, l’economia, la letteratura. Quando la civiltà invecchia e la sua anima si rattrappisce si passa allo stadio della “civilizzazione” (Zivilisation); al principio della qualità si sostituisce quello della quantità; all’artigianato, la tecnica; l’invasività della massificazione dei gusti e dei costumi travolge le differenze; alla città suggente vita dalla campagna ed organizzata a misura d’uomo, si sostituisce la megalopoli come estrema forma di indifferentismo, un termitaio senza più una dimensione umana; le società sono livellate, l’edonismo ed il denaro sono i soli valori riconosciuti. “Solo quando, con l’avvento della civilizzazione – scrive Spengler – comincia la bassa marea di tutto il mondo delle forme, le strutture delle mere condizioni di vita affiorano nude e prepotenti: vengono i tempi nei quali il detto volgare che ‘fame e sesso’ sono i veri momenti dell’esistenza, cessa di essere sentito come una sfrontatezza, i tempi nei quali non il divenire forti in vista di un compito, bensì la felicità dei più, il benessere e la comodità, il panem et circenses, costituiscono il senso della vita e la grande politica dà luogo alla politica economica intesa quale fine a se stessa”.

Parole che sembrano scritte in questi torbidi tempi: furono pensate oltre un secolo fa, quando Spengler voleva creare, intorno agli anni Dieci, un grande romanzo storico e si trovò, trasportato dal sentire della decadenza, a descrivere ciò che inevitabilmente sarebbe accaduto. Il tempo  del tramonto è il nostro tempo. Chi ci ha messo davanti a questo severo destino, livido come il tramonti invernali,  è nostro contemporaneo. I suoi ammonimenti dovrebbero essere accolti con la serietà e la preoccupazione che meritano. Il politically correct,  la viscida organizzazione del consenso egualitario, la cancel culture , l’omologazione dei costumi, dei vizi e l’assenza delle virtù, la costruzione dell’ “ultimo uomo” dedito allo happy end ed a una esistenza da fellah sono parti di un declino che non si riesce ad arginare, mentre la spaventosa gloria del nichilismo celebra se stessa sui nostri rattrappiti destini. 

Il secondo volume del Tramonto – uscito a quattro anni dal primo che scosse le più avvertite coscienze dell’epoca, riedito da un paio d’anni da Nino Aragno (pp.787.€ 40,00) nella consueta veste elegante e la brillante scelta grafica – è il modo più solenne considerata l’epoca, per dichiarare un anticonformismo assoluto e privo di  giustificazioni. E Spengler annoda l’elementarità con il complesso, individuando i sintomi della decadenza nel modo di vivere dell’ occidentale che ha iscritto la sua fine nello Standard way of life.

Ecco le più essenziali. La monumentalità delle strutture abitative ed estetiche, orrende per definizione in quanto ispirate al criterio dell’utile e non della bellezza a conforto delle nostre piccole anime corrotte perlopiù e inadeguate a comprendere la grandezza, il potere volgare del denaro come forza motrice della vita bovina che conduciamo, l’arroganza del demos incolto che spinge la modernità al sentimento di nauseanti e terrificanti divertimenti di massa, sono gli elementi che connotano la fine della Civiltà, i segni eloquenti della Civilizzazione.

Il “regno” nel quale tutto ciò si dispiega è la città. Questo il tragico ritratto spengleriano che con felice e drammatica, ad un tempo, preveggenza formulò al debutto degli anni Venti dello scorso secolo quando la seconda parte del Tramonto prendeva forma: “Il colosso di pietra chiamato ‘cosmopoli’ si erge alla fine del ciclo vitale di ogni grande civiltà. L’uomo della civiltà, sagomato psichicamente dalla campagna, è preda della sua stessa creazione, la città; è ossessionato dalla sua creatura, né diventa l’organo esecutivo e infine la vittima. Questa massa lapidea è la città assoluta. La sua immagine, quale si disegna in tratti di grandiosa bellezza nel mondo di luce dell’occhio umano, raccoglie la sublime simbolica mortuaria di tutto ciò che è definitivamente ‘divenuto’. La storia millenaria dello stile ha infine trasformato la pietra spiritualizzata delle costruzioni gotiche nella materia disanimata di questo demonico deserto sassico”.

Dice Spengler, e noi non possiamo che constatarlo, che le case che compongono le città non hanno nulla delle origini arcaiche di stampo ionico o barocco, non rimandano all’antica magione  contadina, non sono case nelle quali gli Dèi possano trovare una collocazione, come sui piccoli altari delle abitazioni elleniche e romane. Sono case desacralizzate. Le città sono aggregati anonimi nelle quali si celebra l’orgiastica frenesia di una vita  senza scopo, come avrebbe detto nei suoi canti strazianti il più grande poeta tedesco del Ventesimo secolo Gottfried Benn: “Le case sono gli atomi di cui si compone”. Un paesaggio desolante. Nella seconda parte del Tramonto si celebra il mito della Zivilisation faustiana. 

Il capitolo intitolato all’”Anima della città”, che costituisce il cuore  del volume, propone i toni, i colori e le angosce che saranno resi celebri dal capolavoro di Fritz Lang, Metropolis (1927). Sullo sfondo si staglia il “nostro” futuro, cioè il mondo romano, di cui il faustismo ricalca fatalmente i contorni politici. La monumentalità e la corruzione, il dominio del denaro come forza preponderante degli oscuri poteri del demos, vale a dire gli elementi costitutivi del cesarismo, si intrecciano a una percezione che potremmo definire psichedelica della modernità. E in questo vortice di elementi eterogenei, al centro del quale si prepara la catastrofe della Seconda  guerra  mondiale, l’occhio di Spengler vede  più e meglio dei suoi contemporanei. I suoi “errori”, scrisse Ernst Jünger, “sono più significativi delle verità dei suoi avversari”.

Dalla dissoluzione delle forme organiche ai casermoni. La metafora della decadenza è compiuta. E per completarla essa di dispiega nel  declino della prolificità, nella virilità avvizzita, nella fine della funzione regale e materna della donna, nel   ripiegarsi dell’amore su una sessualità priva di seduzione e di erotismo, nell’esistenza del guerriero ridotta ad un militarismo burocratico privo di eroismo.

Spengler non trascura nessun aspetto del cammino della trasformazione della vita associata fino al suo declino. 

La seconda parte del Tramonto è la mirabile scalata dell’intelligenza su per le vertigini della storia dell’uomo occidentale. A differenza della prima, il “paesaggio” è dominante sulla descrizione morfologica. E ciò che se ne raccoglie sono gemme di autentica geniale composizione e scomposizione delle epoche fino si ai nostri giorni.

In pagine attraenti e sconvolgenti al tempo stesso come un temporale notturno che tiene desti, l’ occhio di Spengler insegue il vortice degli elementi costitutivi la Civilizzazione e, per quanto frastornati, riesce a farci comprendere lo stato nel quale ci troviamo. Il carro della Civiltà è arrivato fino a noi. La mercanzia che porta è di scarso valore. Che ne sarà dopo il naufragio dell’ultima illusione, il cesarismo? A questo interrogativo Spengler risponde  con la  frase che chiude il suo  libro profetico, tratta dalle Epistole a Lucilio  di Lucio Anneo Seneca: Ducunt fata volentem, nolentem trahunt (Il fato guida chi vuole lasciarsi guidare e trascina chi non vuole). 

Altro non si può aggiungere se non che davanti a tutti i tramonti delle nostre fragili esistenze, la preghiera rimane l’ultimo atto dello spirito, mentre l’intelligenza volgendosi alle pagine spengleriane può cogliere i segni di un destino che soltanto all’apparenza è indecifrabile. Ciò che non si capisce è perché non lo si conosce. Oswald Spengler salda il suo debito di uomo del Ventesimo secolo all’umanità  dolente della quale fa parte togliendo i veli dalla realtà che celano le falsificazioni della modernità al fine di  raccordarci al passato, nella ciclica visione della storia,  non per restaurarlo, ma  al fine di  capire il futuro per coloro che lo avranno. 

Fonte: barbadillo.it

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