Hegel: Lo spirito conservatore – Parte I

Il pensiero politico di Hegel è conservatore, progressista, forse addirittura rivoluzionario?
Di Harrison Pitt
“La teoria politica di Hegel”, dice il filosofo canadese Charles Taylor, “è del tutto senza precedenti o paralleli. Il tentativo di classificarlo individuando gli shibboleth liberali o conservatori può solo portare a ridicole interpretazioni errate. È vero, il pensiero politico di Hegel resiste alla facile classificazione ideologica, anche se molti dei suoi interpreti, in particolare all’interno dell’anglosfera, ci hanno provato.
Mentre i critici di destra lo hanno attaccato per aver gettato le basi filosofiche per il marxismo, i detrattori liberali hanno liquidato Hegel come un apologeta reazionario dello Stato prussiano o un entusiasta del totalitarismo. Ma la forza predominante del pensiero politico di Hegel è conservatrice, progressista, forse addirittura rivoluzionaria? Sebbene contenga elementi di tutti e tre, il problema per Hegel è che l’approccio riformatore e conservatore alla politica che avanza attraverso la Filosofia del Diritto (1820) viene congiunta con le condizioni per la sua stessa sovversione. Infatti, basandosi sul proprio sistema di una Storia teleologica governata dalla ragione e spinta dall’avventura dello Spirito, attraverso la dialettica, a plasmare un mondo più adeguato al proprio concetto di libertà autocosciente, non avrebbe mai potuto essere diversamente. Gli “shibboleth” conservatori di Hegel, come li descrive Taylor, sono in ultima analisi vulnerabili all’essere destabilizzati dal potere rivoluzionario della filosofia hegeliana della storia da cui nascono.
La filosofia della storia
Hegel non è stato il primo filosofo della storia, ma riserva alla storia un posto particolarmente privilegiato nel suo sistema metafisico. Data l’importante relazione hegeliana tra il progresso dello Spirito verso l’autocoscienza assoluta e la dottrina che questo cammino spirituale si incarna a livello delle trasformazioni della vita istituzionale, sociale ed etica delle società umane, la filosofia progressista della storia di Hegel deve necessariamente donare una certa misura di potenziale progressista, forse anche potere rivoluzionario, al suo pensiero politico.
Il sistema metafisico di Hegel pone la storia al centro della riflessione filosofica. La sua conseguente filosofia della storia inizia dal riconoscimento che esiste una qualità unicamente autoriflessiva nella coscienza umana, rispetto agli animali inferiori e alla natura inanimata. La capacità dell’umanità di riflettere consapevolmente è ciò che rende la storia umana – al contrario, diciamo, della storia dei molluschi – un argomento appropriato per il trattamento filosofico, poiché la riflessione autocosciente, guidata dal libero pensiero razionale, esercita le condizioni per il proprio sviluppo nel tempo.
L’idea di Kant di una storia universale aveva accennato a un’idea simile della qualità distintiva dell’umanità, vale a dire la ragione, che richiede il passare del tempo per diventare più pienamente se stessa. Hegel attribuiva pari importanza alla storia come palcoscenico su cui il soggetto umano, nelle sue manifestazioni spirituali individuali e collettive, può avanzare verso la perfezione della libertà e della ragione. Solo una generazione, ancor meno una vita, mancano delle risorse per questo risultato. Del resto, la capacità razionale dell’uomo “non opera istintivamente” negli individui, ma richiede una coltivazione collettiva e, cosa cruciale per Kant, la storia stessa: la nostra disposizione ad abbracciare la ragione, scrive, ha bisogno di “una lunga, forse incalcolabile serie di generazioni, ciascuna trasmettendo la sua illuminazione al prossimo, prima che i germi impiantati dalla natura nella nostra specie possano essere sviluppati a quel grado che corrisponde all’intenzione originaria della natura. Data questa influenza su Hegel, potremmo essere tentati di vedere la sua filosofia della storia solo come uno sviluppo sistematico, o un riempimento più dettagliato, del prototipo di Kant del 1784. Questa è l’interpretazione di Francis Fukuyama nei primi capitoli di La fine della storia.
Ma questa interpretazione, sebbene attraente, rischia di trascurare il fatto essenziale che la filosofia della storia di Hegel, nonostante le continuità con il progetto kantiano, è sostenuta da una nuova, rivoluzionaria, metafisica comprensione di Dio. Infatti, in Hegel, il concetto di Spirito (Geist) non si riferisce solo alla coscienza umana, come fa il concetto di ragione (Vernunft) nell’abbozzo kantiano di una filosofia della storia, ma anche a una coscienza cosmica più ampia, che Hegel spesso descrive come “Dio”, esistente al di là della vita razionale collettiva dell’umanità come Kant l’aveva immaginata. Ma il Geist, concepito da Hegel come la sottostante realtà metafisica dell’universo, non è il Dio del teismo classico. Mentre la teologia giudeo-cristiana ha sempre inteso Dio come la realtà spirituale soggiacente, distinta dal mondo della materia e dell’umanità, ma da cui quel mondo dipende per la sua esistenza, Hegel ha sostenuto un tipo di divinità che era, per così dire, immanente nel mondo. Sostenne, inoltre, che il potenziale divino di Dio dipendeva dalla vita autocosciente degli esseri umani, come esemplificato nello sviluppo storico delle nostre società, al fine di completare il suo progresso libero e razionale verso l’assoluta conoscenza di sé. “Sul palcoscenico su cui la stiamo osservando – Storia Universale – lo Spirito [Geist] si mostra nella sua realtà più concreta”, dice Hegel nelle lezioni di Filosofia della Storia tenute a Berlino negli anni Venti dell’Ottocento, aggiungendo che l’autocoscienza dell’umanità coinvolge lo Spirito in “un apprezzamento della propria natura” e di conseguenza autorizza lo Spirito “a realizzare se stesso; farsi effettivamente ciò che è in potenza”.
Il nuovo Dio
Tornando al pensiero politico di Hegel, questa metafisica soggiacente ha due conseguenze rivoluzionarie. In primo luogo, divinizza la storia considerando le trasformazioni nelle forme degli assetti socio-politici come manifestazioni incarnate di un progressivo processo teleologico attraverso il quale Dio, usando spiriti umani finiti per i propri scopi, attualizza il suo potenziale razionale nel mondo. Non è un caso che Hegel, verso la fine delle sue lezioni di Filosofia della storia, proclami che la storia, nonostante le sue “scene mutevoli” e anche i suoi momenti da incubo, è l’unica vera teodicea, la giustificazione di Dio all’uomo: «Solo questa intuizione può riconciliare lo Spirito con la Storia del Mondo, vale a dire che ciò che è accaduto, e sta accadendo ogni giorno, non solo non è “senza Dio”, ma è essenzialmente opera sua». La redenzione non è più vista, in senso cristiano, come una speranza che ci aspetta in qualche regno eterno distinto dal mondo; appartiene al mondo stesso che, nella sua storia razionale, contiene la promessa della propria salvezza. Secondo la comprensione hegeliana, quindi, la storia non solo mostra una certa misura di senso teleologico, ma qualunque cosa accada durante la storia, come dice Taylor, gode della “più alta giustificazione”.
La seconda conseguenza rivoluzionaria della deificazione hegeliana della storia è che il modello razionale e normativo rappresentato dal movimento progressivo dello Spirito attraverso la storia del mondo, se accettato, mina la responsabilità individuale nei confronti degli eventi. Questa era la preoccupazione di Kierkegaard. I fini della storia non solo giustificano, ma richiedono qualunque cosa significhi lo Spirito, agendo attraverso ciò che Hegel chiama “la vasta congerie di volizioni, interessi e attività” dell’umanità, che ritenga necessario “per raggiungere il suo oggetto”. Se qualunque cosa accada possiede la “più alta giustificazione”, su quali basi un individuo, o per questo un gruppo organizzato di persone, può opporsi alle richieste di riforma politica o anche al desiderio di una rivoluzione a tutto campo? A condizione che le riforme in questione vengano approvate o che una rivoluzione venga intrapresa con successo, non è possibile per qualcuno che abbia persino la mente più potente sostenere che la storia sia, per così dire, andata completamente storta. Al massimo, possono solo sostenere che le complicate dinamiche devono ancora svolgersi completamente. Non c’è dubbio che, comunque vadano a finire, il risultato, così come i suoi mezzi, saranno razionalmente giustificati.
Nulla potrebbe essere più lontano dalla prospettiva adottata da alcuni filosofi contemporanei di Hegel, non ultimo Joseph de Maistre, che detestava ogni minima parte della rottura “satanica” rappresentata dal 1789. Applicata alla politica, quindi, la filosofia della storia di Hegel deifica il cambiamento progressivo, fornendo una giustificazione normativa per qualunque mezzo lo Spirito ritenga necessario per adempiere ai suoi scopi razionali nel regno politico e contraddicendo nettamente le forze della reazione. Il potenziale rivoluzionario dormiente nella filosofia politica di Hegel, data la sua dipendenza dalla sua radicale deificazione della storia, non è solo apparente ma considerevole.
Il senso personale di Hegel, tuttavia, era che la sua filosofia della storia dovesse avere un effetto calmante, persino tranquillizzante, sull’approccio dei filosofi alla vita politica. I suoi “shibboleth” conservatori sono evidenti in questo atteggiamento, che nasce dall’idea che riconoscere la necessità sottostante allo sviluppo storico non può che promuovere “una visione più calma e una moderata sopportazione di esso”. Questi elementi conservatori in Hegel assumono una forma del tutto più dettagliata nella Filosofia del Diritto che, attingendo alla più ampia filosofia della storia, sosteneva che le istituzioni della famiglia, della società civile e dello Stato, così come esistevano allora in Prussia, erano le istituzioni incarnate progenie sociale di questo razionale sviluppo storico. In quanto tali, non dovrebbero essere condannati nel modo richiesto dagli ideologi, ma piuttosto conservate, poiché come prodotti del libero e razionale sviluppo dello Spirito in tutto il mondo, richiedono la fedeltà di creature libere e razionali. Per quanto paradossale possa sembrare, la rivoluzionaria deificazione della storia operata da Hegel finisce per giustificare – o almeno lo fece per Hegel stesso – una visione politica straordinariamente conservatrice.
Il mondo di Hegel
Cosa significava “conservatorismo” per i prussiani quando Hegel era all’apice del suo potere? Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone per mano dei poteri legittimisti reali nel 1815, conservare lo status quo significava resistere ai disegni razionalisti e costituzionali dei riformatori liberali. Friedrich Ancillon godette di una notevole influenza sul Federico Guglielmo III (1797-1840) di Prussia, spingendolo a respingere i crescenti desideri di una maggiore rappresentanza a livello nazionale, poiché ciò avrebbe significato circoscrivere i poteri del re. Metternich, la cosa più vicina in Europa a un Henry Kissinger del XIX secolo, consigliò con successo al principe Wittgenstein di convincere il re prussiano “a non andare mai oltre l’istituzione di diete provinciali”.
In base alla legge generale del 1823, non molto tempo dopo la pubblicazione di Filosofia del Diritto di Hegel, la Prussia stabilì esattamente un tale insieme di organi rappresentativi localizzati e altamente vincolati. Concedevano un’influenza ponderata ai nobili deputati, che avevano privilegi esclusivi per porre il veto alle proposte. E mentre i cittadini cittadini (Bürger) e i contadini (Bauernschaft) godevano dei loro rispettivi posti nella struttura corporativa e rappresentativa delle diete provinciali, ciò contava poco quando tali organismi erano affamati, come scrive lo storico Christopher Clark, di “poteri legislativi o di approvazione delle entrate”.
Per importanti aspetti, questa preoccupazione conservatrice di proteggere i privilegi ereditati e di ricostruire le rappresentazioni tradizionali della proprietà dell’ancien régime non sarebbe stata ammirata da Hegel, il quale aveva sostenuto in Filosofia del Diritto che, per essere razionale, lo Stato deve riflettere la interessi particolari della società civile così come esistono in un contesto moderno, piuttosto che ignorare l’emergere di nuovi interessi a causa di pregiudizi ostili e ingenui. Naturalmente, questo è stato contraddetto dai mandati reazionari e vincolanti delle diete provinciali stabilite dai principali statisti prussiani conservatori all’inizio del XIX secolo. Questa disparità tra la visione apparentemente “conservatrice” di Hegel e quale “conservatorismo” è stato inserito nel contesto prussiano del XIX secolo rafforza l’opinione di Taylor su Hegel come un pensatore che sfida la classificazione convenzionale nello spettro sinistra-destra.
Lo spirito comunitario di Hegel
Tuttavia, la spinta politica di Hegel è tutt’altro che rivoluzionaria. La sua deificazione del processo storico come forza teleologica, anzi salvifica, non si traduce, a livello del suo pensiero politico, in un appetito di rottura violenta o di rivoluzione, ma piuttosto in una profonda ammirazione per lo Stato, purché serva da incarnazione razionale di l’universale: “È il modo di Dio nel mondo con cui lo Stato dovrebbe esistere”. Spesso tradotto come “lo stato è la marcia di Dio attraverso il mondo”, l’originale tedesco (Es ist der Gang Gottes in der Welt, daß der Staat ist) trasmette l’idea più modesta, meno incipientemente tirannica, che lo Stato sia una condizione necessaria per la libertà, piuttosto che una condizione del tutto sufficiente. Dopotutto, ne consegue immediatamente questo: “Nel considerare la libertà, il punto di partenza non deve essere l’individualità, l’autocoscienza individuale, ma solo l’essenza dell’autocoscienza; infatti, che lo si sappia o no, questa essenza si realizza come una potenza autosussistente in cui i singoli individui sono solo momenti”.
In altre parole, appartenendo allo Stato razionale, gli individui possono sfuggire al falso ideale di libertà nell’isolamento. Grazie allo Stato storicamente evoluto di Hegel, sono inseriti in una vita spirituale collettiva più ampia dove, come creature libere e razionali che vivono in uno Stato formato in ultima analisi dallo sviluppo libero e razionale dello Spirito nella storia umana, “sulla terra e lì realizzandosi coscientemente”, l’individuo è ora in grado di riconoscere le proprie essenze distintive – in questo caso, libertà e razionalità – riflesse nel suo ambiente sociale.
L’alienazione, quel sentimento di profondo disagio che si insinua quando le persone non riescono a identificarsi fedelmente con le norme pubbliche sancite dalla società in cui vivono, viene così dissipata. Bertrand Russell ha deriso il pensiero politico di Hegel come una richiesta assurda e reazionaria che le persone celebrino la loro libertà “di obbedire alla legge”. C’è del vero in questa polemica, ma la concezione negativa di Russell della libertà (l’assenza di costrizione esterna) gli impedisce di apprezzare come, nella filosofia di Hegel, non vi sia nulla di esterno nei vincoli imposti dallo Stato razionale, sia sotto forma di leggi o consuetudini sociali. Poiché considerato sotto la filosofia della storia, lo Stato razionale è il culmine della libertà autocosciente; non è quindi qualcosa di diverso da noi, che si afferma arbitrariamente contro la nostra indipendenza di individui, ma qualcosa di identico ed espressivo della nostra essenza di esseri liberi e razionali.
Tuttavia, mentre la critica liberale di Russell a Hegel si basa su un travisamento in qualche modo da cartone animato del significato inteso dal filosofo tedesco, ha ragione a sostenere che l’obbedienza allo Stato, non la rivoluzione contro di esso, è la logica conseguenza delle dottrine politiche avanzate nella Filosofia del Diritto di Hegel. Ciò che ne consegue non è un diritto a impegnarsi nella rivoluzione, ma un conservatorismo comunitario che, nonostante i molti modi in cui l’assetto costituzionale prussiano dell’epoca non si armonizzava perfettamente con la visione politica di Hegel, sostiene ancora, come disse Hegel notoriamente , che “il dovere supremo” dell’individuo è quello di essere “un membro dello Stato”.
Le riflessioni conservatrici di Hegel sulla rivoluzione in Francia
Questo Hegel conservatore in mostra in Filosofia del Diritto nasce davvero dalla sua valutazione retrospettiva della Rivoluzione Francese, un evento che lo aveva galvanizzato da studente a Tubinga e che, per molti versi, ha continuato ad apprezzare nella maturità, brindando alla caduta della Bastiglia ogni 14 luglio fino alla sua morte nel 1831. Fu sullo sfondo del 1789, dopotutto, che Hegel e i suoi contemporanei – tra cui figure illustri come Fichte, Schelling e Hölderlin – compresero il termine Rivoluzione. Hegel in particolare arrivò a sviluppare seri dubbi sul potenziale dell’Illuminismo (o dell’Aufklärung, come aveva detto Immanuel Kant) di lasciare il suo segno virtuoso nel mondo attraverso il fervore rivoluzionario.
Kant ha definito l’Illuminismo come “l’età della critica”. E «alla critica tutto deve sottomettersi», scriveva; “La religione per la sua santità e lo Stato per la sua maestà possono cercare di esentarsene. Ma poi suscitano sospetti contro se stessi e non possono pretendere il sincero rispetto che la ragione dà solo a ciò che sostiene la prova del libero e aperto esame. Essere illuminati, quindi, significava riconoscere la ragione come misura di tutte le cose, indipendentemente dalla tradizione religiosa o dalla saggezza convenzionale. Hegel in seguito lo definì, in termini tipicamente criptici, come “pura intuizione, ciò che è universale in sé e per sé”.
Ma l’Illuminazione non è solo una rivoluzione nella mente; la ragione, con i suoi poteri appena scoperti, sente un profondo desiderio di rifare il mondo politico. Come spiega Hegel, “essendo un atto cosciente, [la pura intuizione] deve dare ai suoi momenti un’esistenza manifesta definita e deve apparire sulla scena come un puro tumulto e una lotta violenta con la sua antitesi”. Il problema è che questa negatività, sintetizzata dalla “lotta violenta” dei rivoluzionari francesi contro la loro antitesi irrazionale, l’ancien régime, non può produrre nulla di permanentemente positivo. Sottoporre tutto, come raccomanda Kant, al tribunale della ragione universale è un’ingiunzione formale, priva di contenuto concreto. Sul “diritto all’autocoscienza” dell’Illuminismo, la libertà più essenziale nella comunità di creature razionali di Kant, l’individuo diventa un essere isolato, che pensa nel vuoto, in modo tale che ogni potenziale per la comunità, razionale o meno, è precluso. Non c’è nulla di positivo su cui gli individui possano convergere collettivamente a livello sociale: «due uguali diritti dello Spirito», elabora Hegel in uno di quei rari slanci di eloquenza che tendeva ad accumulare come un taccagno filosofico, «potrebbero essere lasciati l’uno di fronte all’altro , nessuno dei due è in grado di soddisfare l’altro.
Per Hegel, questo era il motivo per cui i nostri legami con la ragione cosmica, non meramente umana, devono essere scoperti. L’Illuminismo ha celebrato la ragione per fornire all’umanità un apparato critico rispetto al quale misurare le istituzioni della religione, dello Stato e della società. Nel frattempo, Hegel sosteneva che arrivando a riconoscere la nostra autocoscienza razionale come veicoli di uno Spirito cosmico più grande, non siamo più costretti a considerare la ragione come singolarmente contro il mondo, come qualcosa che “isola il mondo reale come un’entità abbandonata dallo Spirito”. La ragione è ora considerata invece come il motore di una lotta dialettica e spirituale immanente nel mondo, i nostri progetti razionali, persino le nostre passioni irrazionali, essendo solo “momenti” in questo piano più ampio.
La Rivoluzione Francese ha servito questo piano. Non avrebbe mai potuto essere il piano stesso, poiché i rivoluzionari erano guidati dal desiderio di libertà assoluta, il tipo che consente solo un conflitto furioso, in contrasto con l’armonia razionale, con qualunque condizione sociale prevalga. La libertà assoluta, inoltre, non può fermarsi alla demolizione dell’ancien régime; vedendo la pura autonomia come il valore ultimo della vita politica, spiega Taylor, distrugge non solo “le articolazioni esistenti” dell’ordine sociale, ma anche “quelle nuove che minacciano di sorgere”. La libertà assoluta, argomenta Hegel, quindi “non può realizzare nulla di positivo, né le opere universali del linguaggio o della realtà, né le leggi e le istituzioni generali della libertà cosciente, né gli atti e le opere di una libertà che vuole loro”.
Qui è importante la distinzione di Hegel tra Moralität (moralità) e Sittlichkeit (vita etica). Tutto quanto sopra elencato da Hegel, il contenuto positivo delle leggi e delle istituzioni, appartiene al regno della Sittlichkeit — il variegato insieme di costumi e pratiche che correttamente fondano i doveri etici dei cittadini in un ordine reale, razionalmente evoluto, con il quale possono liberamente identificarsi. Moralità, nel frattempo, assomiglia all’etica kantiana: nobile, ma in definitiva astratta dalle particolari circostanze sociali che, facendo un’affermazione spirituale sugli individui piuttosto che limitarsi a fidarsi che pensino da soli in un vuoto non sociale, in realtà danno forza emotiva ai dettami di “ragione pratica” (termine kantiano per la moralità universale) su scala comunitaria.
Concepire la libertà in termini puramente negativi, sostiene Hegel, lascia spazio solo alla Moralität formale : “ciò che la libertà negativa intende volere non può mai essere altro che un’idea astratta”. La fede illuminista nella “pura intuizione” accresceva la fiducia dei rivoluzionari francesi nel loro potere di ragionare verso un sistema di fini che tutti, “l’ essenza autocosciente di ogni singola personalità”, possono accettare. Le norme preesistenti della Sittlichkeit ostacolavano questa sublime visione rivoluzionaria, quindi furono abolite come un’offesa alla libertà assoluta del “puro intuito” di rimodellare la società, se necessario violentemente, secondo la propria immagine. Il problema era che diverse fazioni proponevano immagini diverse, ma avevano eliminato proprio le strutture che le avrebbero aiutate a collaborare socialmente verso un accordo condiviso e duraturo. E così il governo, dice Hegel, divenne “semplicemente la fazione vittoriosa“, la violenza totalitaria che fungeva da unica risorsa contro i pretendenti rivali – fossero girondini, giacobini o hébertisti – al trono del progresso illuminato. La brutalità del Terrore fu una conseguenza delle molte fazioni, avendo abolito le pratiche abituali che avevano precedentemente espresso la Sittlichkeit francese, relazionandosi improvvisamente l’uno con l’altro in uno stato di “negazione del tutto non mediata“. In assenza di usanze e convenzioni condivise per gestire il disaccordo politico, il potere era destinato a sostituire la monarchia come sovrano assoluto, e lo fece debitamente. L’attaccamento profondamente conservatore di Hegel alle strutture intermedie in Filosofia del Diritto si basava sulla comprensione che, senza di esse, l’Illuminismo può solo assumere una forma costituzionale dispotica e terrorizzante.
Nella Parte II, considereremo come un tale formidabile critico dell’utopismo violento sia riuscito a ispirare una generazione più giovane di spiriti alienati decisi alla rivoluzione mondiale.
Traduzione di Alessandro Napoli
Fonte: europeanconservative.com
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