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Intervista ad Alessandro Napoli (Nuova Resistenza – Italia) per la rivista “Nihil Obstat – Revista de historia, metapolítica y filosofía”

Intervista condotta nel Settembre 2021 da Fernando Rivero ad Alessandro Napoli di Nuova Resistenza – Italia per la casa editrice spagnola Ediciones Fides. L’intervista è stata pubblicata sul numero 38-39 della rivista di storia, metapolitica e filosofia Nihil Obstat nel Gennaio 2023.

Realizzata da Fernando Rivero

Prima di tutto, grazie per aver soddisfatto la nostra richiesta di poter conoscere meglio il vostro progetto. Facci un breve resoconto della tua carriera ideologica e professionale, nonché del tuo ruolo in NR-Italia.

Sono Alessandro Napoli, sono laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università del Salento. Insieme al camerata Jonathan McCarthy sono responsabile della sezione italiana di NR-Evropa. Oltre alle questioni di ordine organizzativo ci proponiamo di dare il nostro contributo, da un punto di vista ideologico, all’elaborazione di una Quarta Teoria Politica per l’Europa e nel nostro caso in particolare per l’Italia, secondo i criteri ed i principi stabiliti nella Piattaforma dell’organizzazione.

Il mio percorso politico comincia nei primi anni ’90 negli ambienti antagonisti e in quel loro tipico fermento movimentista anti-globalista infuso di sindacalismo rivoluzionario per poi passare dall’attivismo nei nuclei marxisti-leninisti della sinistra comunista, esperienza questa che realmente mi ha formato e dato nuove lenti per osservare i processi storici e politici, questo, unito ad un sempre crescente interesse da parte mia per tradizione, esoterismo e filosofia perenne, mi ha permesso quindi di approdare, in seguito al raggiungimento di una più concreta maturità personale, ideologica e spirituale, alla Quarta Teoria Politica. Per forza di cose, oggi mi distanzio dalle mie passate esperienze politiche pur non rinnegandole assolutamente, sono infatti parte di quel percorso che mi ha portato fin qui. C’è da dire che nonostante mi sia interessato di politica sin da giovanissimo ed abbia svolto attività all’interno di movimenti e partiti sono sempre stato quello che in altri tempi si sarebbe definito un “cane sciolto” e solo nel momento in cui sono stato onorato dell’opportunità di entrare nella NR-Evropa ho accettato di fare mia questa bandiera. Nella NR-Evropa, infatti ho trovato persone che avevano avuto percorsi simili, sia politici che personali, e con le quali ho grande affinità sia di pensiero che di intenti. NR-Evropa, infatti, più che essere un movimento politico è una vera e propria missione spirituale alla quale non si giunge per caso.

Tra i miei principali interessi di studio, ieri come oggi, ci sono sempre stati i processi connessi al colonialismo, l’anti-imperialismo per quella che è la nozione moderna e post-moderna di imperialismo, nonché il rapporto tra le diverse realtà che costituiscono il mondo odierno globalizzato con l’impellente necessità di difendere tutte le identità dei popoli essendo queste l’ultimo ed unico soggetto a partire dal quale poter ricostruire un’insurrezione radicale come forma di resistenza alla modernità e al “turbocapitalismo”, così come definito dal pensatore e filosofo italiano Diego Fusaro riferendosi al capitalismo finanziario e oligarchico nella fase attuale. Credo infatti che ci sia bisogno di un nuovo paradigma e una attualizzazione di vecchi concetti e criteri che meritano di essere adattati alla situazione attuale, non per essere antiquati in sé ma per il letargo che hanno prodotto, superando così la confusione teorica determinata dalla polarizzazione politica della cultura e della conoscenza. A tal proposito e riguardo al mio percorso professionale, negli ultimi anni ho lavorato come mediatore linguistico-culturale in diversi progetti del sistema di protezione ai rifugiati avendo modo di vedere da vicino le note contraddizioni di una globalizzazione che utilizzando la retorica dei diritti umani, in realtà legittima processi neo-coloniali attraverso i quali, sul versante socio-economico, da un lato, si spogliano le nazioni povere delle loro forze migliori e dall’altro si ricorre ad una sostituzione etnica che riduce la capacità sindacale dei lavoratori autoctoni agevolando nel complesso la distruzione delle identità e lo sradicamento dalla continuità con la propria storia sul versante culturale-civilizzazionale.

Cos’è NR-Italia? Come è nato il progetto? Qual è il suo rapporto con New Resistance, guidata da James Porrazzo negli Stati Uniti, e con Nova Resistência, guidata da Raphael Machado in Brasile?

NR-Italia è la Sezione Nazionale per l’Italia di NR-Evropa che è la nostra organizzazione madre ed il cui Comitato Centrale è guidato da Joaquin Flores. NR-Evropa, nata nel 2014, è parte di un movimento internazionale composto da leadership autonome e indipendenti su base generalmente continentale e civilizzazionale. NR-Evropa è l’organizzazione a livello europeo e l’unica struttura autorizzata in Europa ad operare come tale sotto la bandiera e il nome di NR. Non abbiamo alcun genere di relazione con James Porrazzo e consideriamo questa persona estranea alla nostra organizzazione, così come le nostre sezioni d’oltreoceano negli U.S.A. e in Canada sono anch’esse parte di NR-Evropa e rispondono esclusivamente al Comitato Centrale della stessa, pertanto non vanno associate ad altri movimenti in Nord America ed Europa che con probabilità si fregiano impropriamente del nostro nome. NR-Evropa, insieme alle sue Sezioni Europee e Nordamericane, è un’avanguardia, strutturata come un ordine, è un’organizzazione rivoluzionaria che persegue il Socialismo. Il significato e la definizione di «Socialismo» per NR-Evropa differisce da come il termine è convenzionalmente inteso, così come per il termine «rivoluzionario». NR-Evropa si propone di sviluppare un’ideologia socioeconomica adatta alle condizioni del XXI secolo, in un modo nuovo e inedito, talvolta indicato come Quarta Posizione, Quarta Teoria Politica o 4TP. NR-Evropa non è associata ad altri pensatori, filosofi, scrittori, personaggi pubblici, critici, sociologi o professori le cui idee sono auto-descritte o descritte da altri come “Quarta Posizione”. NR-Evropa può citare, analizzare, fare riferimento a soggetti esterni ma è responsabile soltanto delle proprie dichiarazioni e posizioni.

Abbiamo comunque eccellenti rapporti con altre realtà, organizzazioni, movimenti, individualità referenti alla Quarta Teoria Politica come ad esempio la nostra controparte brasiliana Nova Resistência guidata da Raphael Machado per il quale nutriamo una profonda stima e ammirazione. NR-Evropa e Nova Resistência sono organizzazioni ideologicamente fraterne e funzionalmente indipendenti e autonome. Sebbene possano esserci aree di sovrapposizione, ad esempio, su questioni economiche, filosofiche o sociali, queste organizzazioni non sono interdipendenti o responsabili delle opinioni, dichiarazioni, azioni, associazioni o altri relativi progetti delle altre. Possono esserci posizioni, idee e pratiche molto diverse su un’intera gamma di argomenti e attività. Allo stesso tempo, ciascuna di queste organizzazioni cerca, ove possibile, di approssimarsi a ciascuna di esse nella misura in cui queste si dimostrino superiori, man mano che dette organizzazioni si evolvono. Riteniamo infatti la NR brasiliana, con il suo eccellente lavoro svolto sinora su vari livelli, un tassello fondamentale nella costruzione di un’azione dissidente in Sud America tanto quanto un imprescindibile punto di riferimento nel dibattito ideologico anche per noi in Europa.

Qual è l’impianto di NR-Italia e qual è il suo rapporto con gruppi come Vox-Italia, di Diego Fusaro, o con gruppi neofascisti come CasaPound?

Per quanto riguarda l’impianto ideologico e l’attività di NR-Italia nello specifico, quello che ci proponiamo è la costruzione di un laboratorio politico culturale al fine di elaborare una Quarta Teoria Politica valida per l’Italia che vada di pari passo con le esigenze dei tempi che corrono e quelle della nostra piattaforma continentale, cioè l’Europa occidentale, sia da un punto di vista geopolitico che culturale e civilizzazionale. In tale progetto è benvenuto qualsiasi tipo di apporto, provenga esso dagli ambienti tradizionalisti cattolici o evoliani, sia dal campo socialista, marxista e non, purché ciò che si propone sia svincolato dalle logiche globaliste ed anzi vada nella direzione di combattere tali dinamiche insistendo, come fa notare A. Dugin, sulla necessità di inaugurare un nuovo circolo ermeneutico al fine della ricerca di un nuovo soggetto storico per la Quarta Teoria Politica che sia distinto da quelli delle teorie precedenti e cioè individuo, Stato, Nazione, razza, classe e sia piuttosto un congiunto di essi in chiave antimoderna e anti-liberale come, sempre suggerito da A. Dugin, a tal scopo torna utilissimo il concetto heideggeriano di Dasein. Se quindi dal lato filosofico cerchiamo di rompere i preesistenti paradigmi, sul piano prettamente politico, per forza di cose, ci proponiamo di superare innanzitutto la polarizzazione.

NR-Italia, pertanto si colloca al di fuori delle categorie borghesi di “Sinistra” e “Destra” codificate nelle proiezioni della politica sin dai tempi della Rivoluzione Francese. Invece concepiamo il terreno politico come Popoli (in greco, λαός) contro Capitale. Su un piano pratico pertanto siamo aperti al dialogo con tutte le forze politiche con le quali sia esso possibile. Insistiamo sulla necessità di una Quarta Teoria Politica ma rifiutiamo il settarismo e questo è infatti ribadito nei principi cardine della nostra Piattaforma. Possiamo condividere lotte, istanze e iniziative con Casapound così come con il Partito Comunista ma ci collochiamo al di fuori della logica antifascismo-anticomunismo ed anzi la riteniamo superata, anacronistica e controproducente al fine di combattere il reale nemico dei popoli che è la super-borghesia liberale. In quest’ottica consideriamo le analisi e le posizioni di Diego Fusaro un punto di riferimento importantissimo non solo per quel che riguarda questi aspetti di superficie ma anche per quelli che sono i livelli più profondi della speculazione filosofica del pensatore neo-marxista sulla modernità e la post-modernità. Abbiamo perciò deciso di dare appoggio pieno al progetto di partito del quale è ideologo e cioè Vox-Italia almeno fino a quando esso corrisponderà alla visione d’insieme proposta da Fusaro. A tal riguardo, il nostro camerata Jonathan McCarthy è stato anche candidato nelle fila di Vox alle scorse elezioni regionali nelle Marche.

Che ne pensi di personaggi come Salvini o la nascente Meloni, di Fratelli d’Italia?

Parlando di Vox-Italia, che attualmente sta cambiando nome in Ancora Italia, è necessario un appunto, infatti non si può fare a meno di pensare a Vox-España a causa dell’assonanza dei nomi ma ci teniamo a sottolineare che i due partiti non sono equiparabili e la similitudine dei nomi è stato un fatto puramente casuale. Il partito spagnolo infatti ci sembra più assimilabile alla Destra incarnata in Italia da Lega e F.d’I. piuttosto che al partito di Diego Fusaro il cui impianto ideologico è sintetizzato nella formula coniata da Alain Soral, “Destra dei valori, sinistra del lavoro”. Proprio su questo mi soffermerei per rispondere a questa domanda. Se da un lato la Destra di Salvini e della Meloni, che potremmo definire bannoniana, si presenta come un baluardo nella difesa dei valori tradizionali di famiglia, cristianità, identità culturale, dall’altro è completamente interna all’ordine liberale non soltanto per ciò che concerne gli aspetti economici ma in fondo anche culturali e morali. Per intenderci, in linea più generale, quello incarnato da Lega e F.d’I. dal punto di vista ideologico è quel tipo di conservatorismo che si propone soltanto di rallentare il passaggio in una post-modernità dominata tout court dal Grande Capitale oligarchico ma che non potrebbe evitarlo posto che realmente lo volesse. Così come il nazionalismo sbandierato da questi partiti è meramente di facciata e la loro omertosa accettazione dell’attuale governo Draghi è la cartina tornasole per comprendere la vera natura di tali fenomeni atti piuttosto a convogliare il dissenso su binari morti che impegnarsi in una concreta dissidenza nei confronti dell’U.E. e delle oligarchie finanziarie e dare voce a quella sempre più numerosa parte d’Italia che non si riconosce in alcuna bandiera che non sia il Tricolore e che ormai comprende pienamente di essere soffocata tanto dall’Euro quanto dalla dipendenza atlantica.

Più in particolare, per quanto riguarda nello specifico la Lega e la sua incidenza nella politica italiana, bisogna comunque riconoscere a Salvini, oltre ad una certa abilità politica nell’aver dato un nuovo volto ad un partito prettamente settentrionale e “settentrionalista” permettendogli di radicarsi anche nel Mezzogiorno, una non indifferente dose di buona fede nel tener testa ai poteri forti dell’U.E. durante il suo mandato come Ministro dell’Interno nel governo Giallo-Verde. Governo questo, che nella sua breve vita e nonostante le sue evidenti contraddizioni, ha rappresentato in maniera ottimale quello che era ormai un rinnovato sentimento nazionale maturato nel corso degli anni. Governo che guardava a oriente verso la Russia con la sua gestione dello Stato rivolta alla difesa dell’identità e della pace sociale e verso la Cina da un punto di vista economico con la partecipazione alla Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative); che seppur timidamente, sfidava lo strapotere della finanza europea; che denunciava il neo-colonialismo francese alla base dei flussi migratori provenienti dall’Africa occidentale e che per questo e per una serie di altri motivi si è eclissato infrangendosi sulla chiglia delle imbarcazioni delle potenti O.N.G. sponsorizzate dal globalismo. L’ultimo atto di quel governo fu infatti il controverso episodio della Sea-Watch #3 che violò il blocco navale italiano speronando una motovedetta della Guardia di Finanza, non è mai stato un mistero che dietro quella O.N.G. ci fosse l’apparato di Bruxelles ed in particolare di Berlino.

Salvini sostiene il separatismo catalano. Qual è la tua visione sul ruolo delle patrie e delle regioni nello spazio geopolitico europeo?

Menzionavo il governo Giallo-Verde prendendolo come punto di riferimento per questa analisi ed infatti anche nel caso del federalismo e delle varie istanze secessioniste, quell’evento della recente storia italiana ci fornisce una chiave di lettura. Da un lato, in quel frangente, vi era un movimento frammentario nella sua composizione (M5S N.d.A.), che si era proposto come forza anti-politica, o per lo meno anti-casta, e per questo radicandosi particolarmente nella parte del paese che più aveva risentito del divario tra classe politica e paese reale in passato e cioè il Mezzogiorno. La delusione che esso ha generato con il suo prevedibile “fallimento” quando si è rivelato essere uno specchietto per le allodole, ha ridato respiro a sentimenti revanchisti neo-borbonici nel meridione. Dall’altro lato la Lega che ha sempre rappresentato gli interessi della borghesia del Nord-Est e che in quel contesto era riuscita ad avere una parvenza di partito nazionale, non è riuscita a mantenere la rotta a causa della sua composizione: la corrente “nazional-popolare” di Salvini ha ceduto le redini a quella economica di Giorgetti, decisamente più europeista e dipendente dal grande capitale, anche nel nord il sentimento anti-unitario, per certi versi, si è inasprito.

Io credo che oggi bisognerebbe comprendere alcuni fatti fondamentali. Quello che succede in Italia e che ho appena descritto si verifica in molti paesi dell’Europa e non solo, sentimenti regionalisti sono presenti ovunque. Il XXI secolo è caratterizzato da un processo voluto dall’alto, quello della globalizzazione, il quale sta entrando in crisi e a cui fa da contraltare l’impulso comunitario delle piccole identità che si è riacceso quasi spontaneamente ma che non trova un’opportuna realizzazione. Infatti non sono tanto le Nazioni a dover essere superate ma il nazionalismo del XX secolo in sé, l’Europa dovrebbe recuperare la dimensione tradizionale e imperiale dell’antica Roma in un contesto post-moderno al fine di costruire un ordine multipolare che tenga conto di tutte le identità regionali che la compongono tanto quanto della sua identità civilizzazionale. Nazionalismi e soprattutto micro-nazionalismi, oggi non sono altro che strumenti delle oligarchie per accelerare il processo di sgretolamento in corso. Le oligarchie utilizzano questi a loro piacimento per imporre il controllo finanziario sui popoli. Ci sono cause regionaliste che hanno una certa legittimità storica: quella catalana, basca, scozzese, veneta e ci sono “questioni” come la Questione Meridionale che sono tutt’ora vive ma che vengono utilizzate dall’U.E. per indebolire quel che resta degli Stati Nazionali nel momento in cui essi guadagnano forza come nel caso della Spagna contemporanea o scalpitano di fronte ai diktat di Bruxelles come nel caso della Gran Bretagna (che poi ha optato per la Brexit, preferendo all’U.E. il suo storico spazio coloniale, il Commonwealth) e dell’Italia. La nascita di una nuova nazione catalana, nel contesto dell’U.E. non significherebbe infatti maggiore libertà e indipendenza per il popolo della Catalogna, al contrario, sarebbe l’inizio di un processo di “balcanizzazione” dal quale verrebbero fuori piccole nazioni deboli e ancora più indebitate e dipendenti dal potere centrale oligarchico, la Catalogna a quel punto sarebbe soltanto un’altra “Grecia”, con tutto quello che comporta. Lo stesso avverrebbe in Italia se un federalismo come quello proposto dalla Lega, o addirittura una vera e propria divisione in più Stati come alcuni propongono nel meridione, venissero attuati, si sancirebbe definitivamente la relazione coloniale tra un sud povero, arretrato e trasformato in piattaforma d’esportazione di mano d’opera con un nord in difficoltà e che a sua volta sarebbe ancora più dipendente dal Mitteleuropa e colonizzato dall’Unione Europa.

La Questione Meridionale, infatti, come dicevo pocanzi è ancora attuale e anzi sempre di più si manifesta attraverso quel coacervo di contraddizioni che la caratterizzano sin dall’inizio del processo di unificazione. Lo studioso del Risorgimento Martin Clark, scozzese e per questo in un certo senso sensibile alla storia del Mezzogiorno, fa notare nel suo libro «Il Risorgimento Italiano» che l’opera di Garibaldi era realmente rivolta alla creazione di “un’altra Italia” probabilmente socialista e repubblicana nel Sud, dalla quale si sarebbe potuto ripartire per forgiare addirittura un’altra idea di Europa dei popoli ma che subì il ripetuto sabotaggio degli stessi piemontesi che lo avevano finanziato e dietro cui c’era la longa manus dell’oligarchia capitalista anglosassone. Questo può essere esplicativo della situazione attuale, il progetto accentratore concretizzato nell’Unione Europea è un progetto antico perpetrato per diverse fasi, per esso non era contemplabile un’Europa mediterranea svincolata dal potere finanziario centrale che all’epoca prendeva forma. Il punto non era emancipare il Sud dal Regno di Napoli, descritto falsamente come retrogrado residuo dell’ancién regime, quando invece oggettivamente il regno dei Borboni nel meridione d’Italia era una nazione di tutto rispetto con una propria proiezione geopolitica e con un grado di sviluppo e benessere per niente inferiore ad altri paesi europei; il punto era spazzare via gli ostacoli sulla strada che il capitale finanziario doveva percorrere, che fossero essi legati al vecchio ordine della Restaurazione o che fossero essi progetti innovatori di respiro rivoluzionario. Così come, oggi, all’oligarchia globalista ciò che realmente importa è la gestione delle periferie dell’impero finanziario transatlantico. In definitiva, gli indipendentismi e i micro-nazionalismi interni all’U.E. sono funzionali alla sua strategia del divide et impera.

Tu sei di Lecce (Puglia, sud-est italiano). Come pensi che dovrebbe essere organizzata territorialmente l’Italia? Nella Spagna uscita dal regime del ’78, i territori con lingua propria, come la Catalogna o i Paesi Baschi, sono considerati da molti come “nazionalità” (termine riconosciuto nella stessa Costituzione del ’78). In Italia avete molte lingue e dialetti. Voi stessi, in Puglia, ne avete uno proprio. Pensi che una lingua faccia un nazione?

Spagna e Italia sono i due grandi paesi mediterranei per eccellenza di lingua neo-latina. Ma di quello che fu l’Impero Romano questi paesi non conservano solo la lingua. Una serie di caratteristiche culturali, religiose, antropologiche sono state ereditate da esso e sopravvivono in questi due popoli. Una di esse, che va di pari passo con la questione linguistica, è proprio la conformazione pluriculturale del loro ethnos. Come accennavo precedentemente è necessario un nuovo paradigma che riabiliti il nostro glorioso passato e che ci permetta di essere presenti nel mondo odierno costituito da blocchi continentali e nuovi imperi.

Spagna e Italia sono entità spirituali unitarie sin da quando vennero rispettivamente unificate dai Romani, l’una dalle Asturie a Gibraltar (che dovrebbe tornare ad essere spagnola), l’altra “una dall’Alpi al mar” come anche recita un inno patriottico scritto da Mameli. Questa unitarietà non è data tanto dalla lingua o dalla cultura quanto da uno spirito d’appartenenza alla formazione del quale, nel corso della storia, hanno contribuito diversi fattori anche di ordine geografico, militare ed economico. Il pluriculturalismo (da non confondere con l’odierno multiculturalismo globalista) è stato un punto di forza delle nostre nazioni sin da sempre. La stessa Romanità, per quanto fosse universalista, si è formata arricchendosi di elementi delle culture greche, galliche, iberiche, etrusche, italiche, nuragiche, illiriche, germaniche. Il nazionalismo illuminista del XX secolo e gli odierni micro-nazionalismi plasmati su di esso, non inquadrano questo aspetto, ed in maniera del tutto idealista e dissociata da una realtà tanto oggettiva quanto profonda metafisicamente, hanno spianato la strada a poteri estranei al nostro logos. Il nazionalismo del XX secolo ha calpestato le identità regionali nel nome di un’unica identità nazionale imposta con la forza ottenendo l’unico risultato di rafforzare istanze di micro-nazionalismi che nella loro natura non differiscono da esso e che avrebbero esclusivamente un effetto balcanizzante a vantaggio di super-entità economiche apatride. La costruzione di un’Europa dei popoli deve invece partire dalle piccole identità e comunità, essendo esse le cellule fondanti che la compongono e che con la loro variegata pluriculturalità alimentano quella grande identità civilizzazionale che è Europea ed Eurasiatica.

Le nazioni in questo caso non devono essere negate ma devono fungere da anello di congiunzione tra le due manifestazioni dello spirito europeo, devono tenere conto non solo della cultura e della lingua di ogni singola comunità e regione ma anche di aspetti più materiali come l’identità economica permettendo a tutti i popoli di esprimere il meglio nella maniera che più si adatta ad essa. In definitiva l’Europa deve tornare ad essere sé stessa, un’Impero decentralizzato di lavoratori-guerrieri. Alla luce di una imminente Quarta Rivoluzione Industriale che metterebbe in crisi l’industria di massa e l’organizzazione del lavoro di stampo novecentesco, questo non solo è più che possibile fattivamente ma estremamente urgente, necessario e indispensabile.

Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa che potrebbe avere un’Europa di questo tipo, personalmente non disdegno di quello che era il progetto dell’Asse durante la II Guerra Mondiale: un’Europa suddivisa in macro-regioni a loro volta suddivise in province. In Italia, durante il Fascismo non esistevano entità regionali ma la suddivisione amministrativa era basata esclusivamente sulle province, questo era un fatto molto positivo perché, per come è conformata la pluriculturalità italica, la provincia è davvero rappresentativa della comunità con la sua lingua, la sua cultura, la sua economia. Ad esempio, rispondendo alla tua domanda e approfittando per parlare della mia regione, la Puglia è una realtà tanto variegata che si suole riferirsi ad essa anche usando il plurale, “le Puglie”. In epoca pre-romana era abitata dagli Apuli o Iapigi, una popolazione non italica di origine illiro-dacica divisa in tre rami: i Dauni, I Peucetii e i Messapi oltre all’influente presenza Greca sulle coste meridionali. Con il passare dei secoli e il susseguirsi degli imperi, dei regni e delle nazioni fino ad oggi si può ancora parlare di quattro subregioni caratterizzate da identità affini ma sostanzialmente diverse tra loro, ognuna con la propria lingua, la propria architettura, gastronomia, mentalità, etc. Quella che era la Daunia oggi è la Capitanata che coincide con la provincia di Foggia dove si parla un dialetto pugliese fortemente influenzato dal napoletano; in quella che era la Peucetia oggi c’è la Terra di Bari che coincide con le province di Bari e la nuova provincia BAT, si parla il dialetto pugliese per antonomasia cioè il barese con tutte le sue varianti; quella che era la Messapia oggi è conosciuta come Salento, coincide con le province di Lecce, Brindisi e parte della provincia di Taranto, si parla il salentino, un dialetto completamente differente dai dialetti pugliesi e più simile al siciliano e al calabrese meridionale poiché questo lembo di terra non venne raggiunto dalle invasioni barbariche, salvo episodicamente, e restò saldamente sotto l’Impero bizantino durante tutta la durata del suo dominio nel Mediterraneo; per ultimo vi è quella che era la grande polis della Magna Graecia, Taras, che oggi è la città di Taranto, qui si parla un dialetto che in linguistica si definisce di “transizione”, un misto di salentino e pugliese ma che presenta molte affinità con i dialetti lucani e calabresi della costa ionica. A questo bisogna aggiungere una serie di minoranze che nel XX secolo vennero perseguitate, se non materialmente, sicuramente culturalmente come dimostrano innumerevoli testimonianze secondo le quali le loro lingue erano considerate indice di arretratezza. Tali minoranze costituiscono le “isole alloglotte” Arberesh nelle province di Taranto e Foggia, addirittura Franco-Provenzale nella provincia di Foggia al confine con la Campania e il Grecanico o Griko nella provincia di Lecce in quella che è conosciuta come Grecìa Salentina, un dialetto greco di origine bizantina oggi quasi scomparso ma ancora vivo nella tradizione e nella produzione musicale e letteraria. Se per la Puglia si può comunque parlare di un’unica regione storica, nonostante tutte le differenze sopracitate, data la comune origine iapigica che anche anticamente le permetteva di essere identificata come un’unica entità, per molte altre regioni la situazione cambia; la diversità è ancora maggiore e le regioni attuali non sempre corrispondono con le regioni storiche romane e pre-romane. Questo denota quanto sia stata artificiale e grossolana la suddivisione amministrativa post-bellica dell’Italia il che non è solo un fatto linguistico-culturale ma che si è ripercosso sull’economia e sul differente sviluppo delle diverse aree. Ad essa sarebbe sicuramente preferibile un sistema che permetta uno sviluppo organico del territorio amministrato attraverso macro-regioni (da tre a cinque, più le isole maggiori) e che dia riconoscimento alle identità tutelando peculiarità e automie comunitarie attraverso le province, le città, i comuni.

E NR-Evropa? Esiste in altri paesi?

Sì, NR-Evropa è presente in diversi paesi. In Serbia dove si trova il Comitato Centrale, in Italia dove siamo attivi come NR-Italia e strutturati come Sezione Nazionale secondo l’autonomia concessa dai principii della nostra Piattaforma, altre cellule sono presenti nel Regno Unito e in Irlanda. Anche oltreoceano siamo presenti con le nostre sezioni nordamericane negli Stati Uniti e in Canada. Essendo NR-Evropa strutturata come un ordine o un’avanguardia e non come un movimento di massa e dato che in questo frangente storico il nostro lavoro si concentra sull’elaborazione ideologica, l’analisi e la diffusione delle nostre idee non puntiamo tanto a espanderci rapidamente quanto a radicarci in determinati contesti che noi consideriamo focali. A tal proposito, sono degni di menzione le nostre testate Fort Russ News e Center for Syncretic Studies.

Quando e quale editore ha pubblicato in Italia il libro “La Quarta Teoria Politica” di Aleksandr Dugin? In che modo questo lavoro ti ha influenzato?

La prima edizione de “La Quarta Teoria Politica” è datata 2017 ad opera della casa editrice NovaEuropa che lo ha ristampato nel 2018 corredandolo di testi aggiuntivi come un’ulteriore prefazione dell’autore: “La Quarta Teoria Politica e il Logos Italiano” in cui Aleksandr Dugin, in un interessante tributo, parla delle affinità e divergenze della sua Quarta Teoria Politica con il pensiero di quello che considera un pilastro della sua formazione tradizionalista e cioè Julius Evola. In altri due successivi paragrafi si sofferma su contesti attuali del mondo politico italiano e cioè la Sinistra Italiana e il Populismo. Nel primo Dugin parla dell’importanza di quel marxismo italiano dal quale è scaturito il pensiero di filosofi come Costanzo Preve – il quale ebbe l’intuizione dell’urgenza nel superamento della dicotomia destra-sinistra e della creazione di un fronte comune antiliberale e antiatlantista fondato su valori tradizionali, patriottici e comunitaristi – e di Massimo Cacciari, il quale mette in relazione l’orizzonte del sogno comunista con la natura angelica dell’essere umano la riscoperta della quale – dice – è l’obiettivo stesso della rivoluzione. Un altro tratto fondamentale del pensiero di Massimo Cacciari, che Dugin sottolinea, è l’interesse del filosofo italiano per la geo-filosofia e la geosofia. Cacciari infatti propone una visione geopolitica in controtendenza con quella classica della sinistra rivolta all’universalismo introducendo il concetto di «Arcipelago Europa» per mezzo del quale si evidenzia l’importanza del mosaico di regioni e identità che compone l’Europa. In questo grande interesse per la pluriculturalità dell’identità europea si scorge un tratto tipicamente italiano, non sarebbe errato infatti parlare di «Arcipelago Italia» riferendosi ad una nazione che era composta da entità politiche distinte e indipendenti e delle quali conserva ancora connotazioni culturali fondanti. Un terzo filosofo della Sinistra Italiana che Dugin menziona è Giorgio Agamben con la sua analisi sulla Modernità nella quale costituzionalismo e parlamentarismo sono semplicemente un velo che viene meno ogni volta che la democrazia si confronta con la realtà oggettiva rivelando la vera natura della Modernità, cioè il lager. Come fa notare il nostro Joaquin Flores nei suoi articoli pubblicati da Strategic Culture Foundation, basti pensare, infatti, alla situazione attuale in cui l’élite della società dei diritti e delle libertà utilizza un virus per perpetrare un Grande Reset imposto attraverso uno stato di polizia permanente al fine di accaparrarsi il dominio di una inevitabile Quarta Rivoluzione Industriale che metterebbe in crisi la ruota karmica della produzione e del consumo. Una Quarta Rivoluzione Industriale che svincolerebbe l’umanità dalla grande industria di massa fornendo gli strumenti per un ritorno all’artigianato in versione 4.0, con conseguenti orizzonti nei quali la comunità, l’autodeterminazione, il decentramento diverrebbero soggetti principali. Ovvio che di fronte a questo scenario il monopolio dell’élite globalista entrerebbe in crisi ed è qui che il liberalismo si rivela per quello che è: il totalitarismo del grande capitale finanziario. Le critiche alla Modernità dei tre filosofi italiani si avvicinano non poco alla Quarta Teoria Politica, e siccome la forma politica dominante di questa epoca è il liberalismo, la rivelazione delle sue pratiche totalitarie è un tassello fondamentale nella costruzione di una nuova società in cui «gli individui» ritornino ad essere «persone» e i popoli non più soggetti astratti ma entità spirituali eterne.

Nell’ultimo paragrafo, Dugin, parla del fenomeno politico che ha caratterizzato l’Italia nella storia recente e cioé il populismo che l’autore mette in relazione con la Quarta Teoria Politica sul piano filosofico utilizzando il concetto heideggeriano di “Dasein existiert volkisch“, il Dasein esiste come popolo. Il populismo viene quindi inteso come una vera è propria palestra della Quarta Teoria Politica e quest’ultima una “metafisica del populismo“. In questo contesto, il populismo, non è più un concetto vago e spontaneo nel suo rifiuto dello status quo, ma ben fondato in profondità, espressione delle aspirazioni più intime di un popolo, un concetto d’avanguardia. Personalmente ho apprezzato molto la prefazione dell’autore sul logos italiano poiché io stesso mi sono avvicinato alla Quarta Teoria Politica transitando per il campo marxista e movimentista. Credo che il 2011 con la guerra in Libia e lo scoppio delle “primavere arabe” sia stato lo spartiacque tra la vera dissidenza e l’accettazione del cortile ideologico imposto dall’élite liberale. In quel frangente, attraverso le analisi di Costanzo Preve mi avvicinai alle idee dei russi A. Dugin, G. Zyuganov, E. Limonov. Attualmente credo che la proposta di Dugin sia il cantiere aperto che più si adatta ai tempi che corrono e che abbia la capacità di raccogliere le sfide future.

Ci sono molti che dicono che i sostenitori della Quarta Teoria Politica sono dei Terzoposizionisti che non vogliono essere identificati con il fascismo e il nazionalsocialismo. Che cos’hai da dire a riguardo?

Sebbene, tra i sostenitori della Quarta Teoria Politica, in molti provengano da quel campo e l’intento della Terza Posizione sia stato quello di superare la dicotomia destra-sinistra, la Quarta Teoria Politica, come dice lo stesso nome, è da considerarsi un superamento anche di essa oltre che del marxismo e del liberalismo. La terza posizione coniuga elementi socialisti con altri tipici della destra conservatrice ma senza uscire dall’elaborazione ideologico-filosofica del XX secolo e dell’illuminismo. La Quarta Teoria Politica si propone di rompere con i paradigmi del XX secolo e con i postulati illuministi. Pur non rinunciando alla tecnica, alla scienza, alle conquiste sociali di quel periodo, la Quarta Teoria Politica si pone nei confronti di essi in maniera del tutto inedita rifiutandone principalmente i dogmi, scientisti e non, a favore di una ritrovata dimensione metafisica e spirituale in sintonia con la rivelazione escatologica e si colloca in antitesi con quella forma mentis tipicamente occidentale definita ideologia del progresso. A differenza di tutte le ideologie del secolo passato, incluse quelle conservatrici, la Quarta Teoria Politica rifiuta l’idea di progresso inteso come processo monotònico. Come Dugin fa notare – citando Gregory Bateson, antropologo, sociologo ed epistemologo tra i maggiori del XX secolo – i processi monotòni, non esistono né in biologia, né in meccanica e, tanto meno possono funzionare nelle società umane. «non sempre ciò che vien dopo è progresso», diceva Alessandro Manzoni in un’affermazione che risentiva sia della fiducia nel progresso riposta nella la sua iniziale adesione all’Illuminismo, sia di una posizione più disincantata successiva alla sua conversione al cattolicesimo con l’avvicinamento alla corrente del Romanticismo. E ancora Dugin sostiene: «Processi monòtonici, come l’incremento della popolazione, in molti casi conducono alla guerra, la quale torna a ridurre la popolazione stessa», e aggiunge che «nella società attuale vediamo livelli di progresso tecnologico senza precedenti, insieme ad un incredibile degrado morale».

Ma veniamo al dunque, un primo fattore da tenere in considerazione è la realtà oggettiva nella quale si sviluppano le due teorie. La Terza Posizione si incuneava tra i due blocchi dominanti con le loro rispettive ideologie, cioè liberalismo e comunismo; la Quarta Posizione si sviluppa in un mondo in cui non c’è più alcuna contrapposizione ma il dominio totale (e totalitario) della Prima Teoria Politica, il liberalismo. Se la Terza Posizione si articolava in un mondo nel quale più universi metapolitici erano concreti e in conflitto, la Quarta Posizione deve attingere alla stessa Metafisica del Caos propria della post-modernità. Infatti, in questa epoca dominata dalla governance – o gouvernance, come la definisce Alain De Benoist – e caratterizzata dall’inerzia, non si presuppone alcuna politica, ma tutte le decisioni vengono prese da tecnici che suppliscono la figura del politico. Il mondo che le élites ci prospettano sarà un regime post-ideologico globale governato dalle leggi del mercato e gestito dalla tecnocrazia. E’ facile immaginare che in un contesto del genere il superamento della dicotomia destra-sinistra non può avvenire secondo i parametri canonici della Terza Posizione ma è necessario oltrepassare questa polarizzazione seguendo schemi più consoni all’attuale natura del potere. Per questo è più opportuno inquadrare lo scacchiere politico e geopolitico in termini di centro-periferia, consenso-dissenso data l’impossibilità di determinare la collocazione di destra e sinistra in relazione al postmodernismo.

Un altro tratto che distingue le due teorie è la diversa concezione di patriottismo. La Quarta Teoria Politica fa leva sul concetto di Dasein di Heidegger. Esistere significa stare nel mondo, “esser-ci”. Implica dunque un legame necessario con un certo “hic et nunc”, un determinato mondo, una precisa situazione storica, sociale, comunitaria ed individuale. Il baricentro della Quarta Teoria Politica è la convinzione che l’uomo debba rimettere da parte il mercato per forgiare un sistema in cui al centro vi sia quel particolare senso dell’uomo definito Dasein, “esser-ci”. Mentre nella Terza Teoria Politica il soggetto principale era la Nazione o la razza, nella Quarta Teoria Politica non si propone un ritorno ai vecchi nazionalismi, ma un ripensamento del concetto di popolo in base alla riflessione heideggeriana sul Dasein come modalità peculiare della vita culturale, religiosa e linguistica di un dato gruppo umano. Nella Quarta Teoria Politica, il Dasein dunque, inteso come appartenenza ad una comunità di lingua, credenze religiose, condivisione di risorse ed intenti, diviene l’ethnos. L’ethnos si esprime come adesione ad un destino comune che va dalla comunità alla civiltà passando per la nazione. A differenza della precedente teoria politica questa appartenenza non soggiace ad alcuna pretesa universalista, ogni civiltà avrà una composizione mutevole in base ai tanti popoli e comunità che la compongono senza alcuno standard universale o materiale. I «Grandi Spazi» continentali e civilizzazionali differiscono dai governi nazionali poiché sono composti da più entità politiche, religiose, etniche che hanno un’unica missione storica e trascendentale. L’Eurasiatismo quarto-teorico dunque, intende la società occidentale, con il suo sviluppo e la sua modernità, come un fatto definito in un certo tempo e in un certo luogo rifiutando di riconoscerne la sua universalità. Non esiste un unico punto di riferimento che stabilisca un modello di civiltà; ogni civilizzazione è libera di avere i propri parametri, ritmi e direzioni. Inutile aggiungere che in base a questo, la Quarta Teoria Politica, respinge qualsiasi istanza razzista o suprematista, sia che essa si basi sul grado di sviluppo e libertà individuale come avviene nel liberalismo in cui il modello anglosassone e occidentale è imposto come unico valido; sia che si basi sulla necessità di un’adesione ad un determinato modello politico-economico come avveniva nel comunismo; sia che si basi su una presunta superiorità culturale o biologica come è avvenuto nel fascismo e nel nazional-socialismo. Chi aderisce alla Quarta Teoria Politica accetta di andare oltre il passato e le ideologie che hanno esaurito il loro tempo pur rivalutando il meglio di esse. E’ possibile che gli eurasiatisti vengano tacciati di fascismo o di comunismo al fine di essere screditati a seconda delle circostanze e della convenienza, ma proprio questo è il principale punto di forza della Quarta Teoria Politica che è considerata pericolosa non essendo inquadrabile.

La geopolitica è molto importante nella Quarta Teoria Politica. Tu che conosci abbastanza bene la realtà ibero-americana Come vedi il ruolo di Spagna e Portogallo nell’integrazione ibero-americana? C’è un settore patriottico in Spagna, di origini falangiste, che vorrebbe una separazione dall’Unione Europea e un’unione con i paesi ibero-americani sotto l’egida della Hispanidad, o anche con l’intera Iberofonia, compreso il PALOP (Paesi africani di lingua ufficiale portoghese: Mozambico, Angola, Guinea-Bissau, São Tomé e Príncipe, Cabo Verde). Come vedi un’unione di questo tipo o pensi, al contrario, che lo spazio geopolitico della Spagna è l’Europa o l’Eurasia, accanto all’Italia?

Ne “Il paradigma della Fine”, Dugin, analizza il fatto secondo cui la dialettica geopolitica consiste nella lotta tra Mare e Terra, come già, prima di Carl Schmitt, faceva notare Tucidide in “Guerra del Peloponneso”. La contrapposizione tra potenze talassocratiche e telluriche è una categoria universale che nel corso della storia si è sempre riproposta e che non si può sintetizzare esclusivamente in termini geopolitici. Se il Mare è sempre stato incarnato da potenze come Atene o Cartagine mercantiliste, mercenariste, progressiste; la Terra è sempre stata rappresentata da potenze come Sparta o Roma rurali, militari, tradizionaliste. Indipendentemente se il Mare abbia prevalso sulla Terra o viceversa a seconda dei periodi storici, il Mare ha sempre incarnato la mobilità permanente, l’assenza di un centro stabile; al contrario la Terra è la stabilità, la costanza, la tradizione.

Nel XX secolo questa dicotomia raggiunge proporzioni planetarie con lo scontro tra i due blocchi, capitalista da un lato e socialista dall’altro, mettendo in evidenza la natura economica, tra l’altro affatto nuova, dei soggetti fondanti la categoria in analisi: Capitale (Mare) contro Lavoro (Terra). Se per la prima metà del XX secolo una terza entità metapolitica (fascismo, nazional-socialismo) si incunea tra i due blocchi fondandosi sull’idea di una possibile conciliazione di Mare e Terra e delle rispettive caratteristiche spirituali, politiche ed economiche, essa non riesce a costruire una propria dimensione geopolitica. Con i suoi nobili propositi e le sue rivendicazioni autarchiche, ottenne il solo risultato – in seguito ad una guerra mondiale – di ritardare quello che sembrava il destino manifesto dell’Eurasia. Come sempre Dugin fa notare, secondo le analisi di Jean Thiriart che aveva previsto la crisi del blocco sovietico con venti anni di anticipo, l’ascesa e la caduta del fascismo e del nazismo non segnarono soltanto la sconfitta dell’Europa, ormai consegnata all’Atlantismo, ma marcarono quello che sarebbe stato il successivo fallimento dell’intero progetto eurasiatico avendo impedito l’espansione ad Ovest dei sovietici.

Noi mediterranei siamo popoli che per nostra natura abbiamo una propensione al mare, per noi il Mediterraneo è vitale in tutti i sensi. In particolare Spagna e Portogallo hanno costruito nel mare i loro imperi e – credo che su questo concorderemo tutti – hanno dato – nel mare – continuità all’Impero Romano. Hanno reso possibile una rinascita di quel grande impero che aveva segnato e unificato l’Europa dando nuovo respiro al nostro continente e al mondo sino allora conosciuto. Nello stesso modo, spagnoli e portoghesi diedero nuova vita alle Americhe delle eccelse ma ormai decadenti civiltà pre-colombine. Dunque, in base all’analisi fatta anteriormente, se da una lato l’intera Europa si trova nella posizione geo-strategica di dover scegliere tra le uniche due opzioni possibili – e cioè essere l’avamposto occidentale dell’Eurasia, oppure essere la zona costiera sotto il controllo del potere Atlantico in opposizione alle masse continentali dell’Hearthland – la continuità culturale e spirituale con l’Impero Romano lega Spagna e Portogallo, così come la stessa Europa, inevitabilmente a quell’universo tanto simbolico e metafisico quanto politico e geopolitico dell’Eurasia. L’appartenenza di Spagna e Portogallo alla sfera della Terra si esplicita anche, ad esempio, nel diverso approccio coloniale e post-coloniale rispetto a quello avuto da altri popoli come olandesi e anglosassoni in America. A differenza di questi, spagnoli e portoghesi, hanno perpetuato, proprio quello che era il modello romano di Impero. Hanno allargato la propria civiltà includendo e non distruggendo le altre culture e nel momento in cui la nuova civiltà americana prodottasi da questo processo ha rivendicato il suo diritto ad esistere in quanto tale, non ha rinunciato a quell’identità ispanica e lusitana trasmessagli dai colonizzatori; pur rivendicando le sue origini ancestrali, le ha coniugate con la latinità e l’Ibericità. E’ stato grazie a quest’approccio se oggi quella che va da Tijuana alla Terra del Fuoco è la patria dei sincretismi e di quella che José Vasconcelos definì la «Raza Cosmica», una nuova razza meticcia che possiede i fattori spirituali, razziali e territoriali per permettere all’Umanità di cominciare una nuova era. Oltretutto, ciò serve a sfatare la “Leggenda Nera” diffusasi a partire dai paesi protestanti ostili alla supremazia di Spagna e Portogallo sulla presunta opera genocida di spagnoli e portoghesi in un’America del Sud che come sappiamo è molto diversa da quella di matrice “bianca”, anglosassone e protestante che gli inglesi hanno lasciato nel Nord.

Sostiene l’autorevole Professore argentino Marcelo Gullo Omodeo nel suo libro “Madre Patria” che, Hernán Cortés, con la Battaglia di Tenochtitlan non sancì l’oppressione spagnola ai danni dei nativi ma, al contrario, la liberazione di tutte quelle nazioni indigene oppresse dagli aztechi e che, riunitesi attorno agli spagnoli, misero fine al dominio di una minoranza in decadenza imperniato sull’antropofagismo rituale e sul terrore per mezzo dei quali si dava fondamento ad uno dei totalitarismi più sanguinari di tutti i tempi. Sempre Gullo Omodeo fa notare come fosse infatti normale, che il sentimento predominante degli ispanoamericani fosse quello di considerare la Spagna come la propria Terra dei Padri, almeno fino a quando la narrativa della “Leggenda Nera” non è penetrata nell’anima della gioventù attraverso la propaganda della sinistra globalista, che sempre a detta del Prof. Gullo, in Argentina oggi è incarnata dal kirchnerismo, che invece di raccogliere l’eredità di Juan Domingo Peron ha fatto sua la retorica progressista post-moderna di matrice anglosassone.

Così come il brasiliano Darcy Ribeiro, parlando di «Nova Roma» nei suoi studi antropologici riferendosi al Brasile mette in evidenza sia la potenzialità di questo popolo di aspirare a costituire un nuovo blocco nello scacchiere mondiale, sia il suo bagaglio spirituale, culturale e civilizzazionale che trova origine nella latinità. Anche in questo caso, proprio il P.D.T. che avrebbe dovuto raccogliere l’eredità di Getulio Vargas, partito a cui lo stesso antropologo apparteneva, sembra essere più incline a mettere l’accento su un indigenismo artificiale e fare proprie posizioni in linea con i diktat globalisti sia dal punto di vista culturale che da quello politico-economico.

Evola diceva in Orientamenti: «Nell’idea va riconosciuta la nostra vera Patria. Non l’essere di una stessa terra o di una stessa lingua, ma l’essere della stessa idea è quel che oggi conta» e in questo senso credo che Spagna e Portogallo siano ancora legate alle sorti di Sud e Centro America con le quali ne condividono la loro “essenza”, intesa proprio come quell’essere che i popoli iberici donarono al Nuovo Continente.

Bisogna abbandonare però i vecchi paradigmi per permettere a questo nuovo blocco continentale di realizzarsi come civiltà, la «Raza Cosmica» fatica a trovare una sua strada verso l’integrazione tanto quanto quella eurasiatica. Negli ultimi decenni l’America Latina ha messo in evidenza le sue contraddizioni e l’incapacità di uscire dallo stallo sia per l’immaturità delle masse sia per l’ingerenza globalista che si manifesta a tutti i livelli politici, culturali, economici. Al fallimento del progetto di Patria Grande del fronte nazional-populista di sinistra guidato da H. Chavez fa da contraltare un neo-conservatorismo dipendente da Washington, affatto patriottico, che incarna l’aspirazione piccolo borghese di un proletariato abbagliato dall’American dream della crescita infinita.

È comunque degno di una particolare considerazione quello che avviene a sinistra. Se durante l’Onda Bolivariana, la sinistra, era riuscita a dare risposte nel campo del lavoro e a dar voce ai milioni di invisibili; in seguito, soprattutto sul versante culturale, è stata fagocitata da quel progressismo che non ha mai smesso di caratterizzarla e che è la punta di diamante del dominio del Mare. Quelli che sembravano poter diventare movimenti patriottici di ampia portata e di lungo respiro, o si sono impantanati nelle contraddizioni endemiche dei loro paesi – come in Venezuela dove la corruzione e lo scarso senso civico, frutto di decenni di abbandono sociale, ha permesso ai nemici del socialismo bolivariano di approfittare delle brecce – o come in Argentina, Cile, Ecuador, Brasile dove quella stessa sinistra, presumibilmente “patriottica”, ha aperto le porte al globalismo. Una cartina tornasole di quest’ultimo caso è la Colombia con la sua situazione attuale. Nei recenti eventi colombiani ha prevalso la logica della “rivoluzione molecolare” teorizzata da Felix Guattari che non è frutto di una “cospirazione globale comunista” come sostiene chi a destra non è mai uscito dai vecchi schemi pinochettisti – per cui atlantisti – e trova comodo soffiare sul vento della polarizzazione destra-sinistra. Al contrario quella strategia trova la sua origine nella deriva post-sessantottina della sinistra occidentale che è diventata definitivamente il veicolo della cultura liberale, avanguardia della società fluida e quinta colonna del Grande Capitale. Seppur da posizioni in apparenza diametralmente opposte, alla base delle proteste in Colombia e dei tentati golpe in Venezuela vi è la stessa logica e la stessa matrice. Nel primo caso l’obiettivo è spazzar via una classe politica ormai obsoleta, scomoda e per molti versi imbarazzante per il Washington Consensus, nel secondo caso ovviamente metter fine ad un esperienza nazionalista che, nonostante tutto, ancora si configura come una resistenza o quanto meno un’enclave russo-cinese in America da un punto di vista strategico. In entrambi i casi si fa leva sul malcontento e sul ribellismo senza basi che ne consegue, l’obiettivo è aprire le porte a quella Terza Via teorizzata da Anthony Giddens già affermatasi nella nostra Europa: la Terza Via che coniuga social-democrazia e liberalismo, che appiattisce la dimensione politica sul management e la governance, che è la forma politica perfetta per il capitalismo dopo la caduta del Muro di Berlino e che alla teorizzazione ed alla messa in pratica della quale hanno partecipato politici come F. H. Cardoso, L. Jospin, M. D’Alema, M. Prodi, M. Renzi, G. Schröder, J. Zapatero, T. Blair, B. Clinton, E. Macron, A. Merkel sin dai primi anni novanta.

Il processo che sta avendo luogo in Sud America attualmente, infatti, è la riedizione di quello che è avvenuto in Europa a cavallo tra i ’90 e il primo decennio del Terzo Millennio. E’ facile constatare che se questo è il panorama a sinistra, una risposta da destra non può venire da settori conservatori ma legati a doppio filo al capitalismo finanziario. Se è vero che il trumpismo, con le sue derivazioni in Europa e in America, ha costituito una rottura con il vecchio conservatorismo e può essere considerato un primo passo verso una nuova presa di coscienza, è anche vero che non potendo dare risposte, né potendo essere per sé una risposta definitiva, si è eclissato e quello che ne era derivato (Bolsonaro, Salvini) è rientrato nei ranghi, nel cortile predefinito dal Capitale oligarchico, rivelando definitivamente la sua natura funzionale al sistema. La costituzione di un nuovo ordine ha bisogno di una nuova ideologia tout court che si basi su presupposti non deformati dal liberalismo e dal suo conseguente nichilismo ma si fondi piuttosto su una visione arcaica della politica che permetta alla Tradizione di affermarsi in una post-modernità che non può essere evitata, che coniughi la verticalità dei valori con la giustizia sociale e che crei ponti tra civiltà con identità proprie. A tal proposito credo che i popoli iberici abbiano innato nei loro Dasein questo coraggio pionieristico e questa visionarietà d’avanguardia che già in passato gli ha permesso più di una volta di determinare la storia. Se Spagna e Portogallo devono restare fedeli alla loro vocazione marittima tanto quanto alla loro natura tellurica per poter riscoprire le potenzialità che il dominio talassocratico atlantista in Europa ha oscurato, i popoli latini nel mondo – ognuno con la sua unicità e civilizzazione – complessivamente devono ricominciare a guardare a sé stessi e riavvicinarsi in funzione di quell’essenza che li accomuna, che li rende affini, che determina la loro nobile comunione d’intenti di fronte al dominio della società liquida e informe dei corsari e dei mercanti.

Qual è la tua opinione sull’Unione Europea? Promuovete una Italexit? Un’uscita dall’Euro? La creazione di un quadro politico latino-europeo, anche con il latino come lingua comune (i francesi hanno proposto il latino come lingua franca per l’Unione Europea)?

Inutile specificare che quando parliamo di Europa non intendiamo l’U.E., manifestazione del potere Atlantico e plutocratico, ma quell’Europa di popoli sovrani e comunità che si intende costruire liberandola dal giogo del capitale finanziario e dell’oligarchia occidentale. Noi di NR-Evropa, intendiamo l’Europa come una comunità cooperativa basata da un lato sull’aiuto reciproco e fraterno, dall’altro sulla sovranità nazionale e incentrata sul bagaglio culturale storico europeo, ricco e ancora vivo, anche se attualmente represso. Assumiamo pertanto una posizione secondo la quale qualsiasi opposizione all’U.E., qualsiasi exit da qualunque parte provenga, va appoggiata e sostenuta. Che questo cambiamento rivoluzionario avvenga all’interno dei processi di una riforma popolare dell’U.E. – utilizzando i suoi meccanismi medesimi e attuali – o se avvenga con altri mezzi, è in questo momento imprevedibile. Tuttavia, tutti i movimenti euroscettici oggi condividono una critica comune, e le iniziative di tipo “Exit” e “Skeptic” dovrebbero essere sostenute con entusiasmo. Riteniamo comunque inutile costruire alleanze tra nazioni, minoranze regionali o partiti e movimenti se esse non hanno come fine ultimo, in prospettiva, quello di scardinare l’Unione Europea ma si limitano a rivendicazioni interne allo stesso sistema politico-finanziario imposto dalle élites. Prima alludevo all’idea secondo cui i popoli latini debbano riprendere contatto con la propria identità sulla base dei tratti civilizzazionali che li interconnettono e il comune interesse a mettere fine al dominio di un modello percepito come estraneo che si impone universalmente. Ho usato volutamente la parola “latini” poiché la mia considerazione non riguarda esclusivamente il rapporto tra i paesi iberofoni ma lo stesso discorso vale per tutti quei popoli che condividono le stesse origini linguistico-culturali e, come vedremo, non solo questi.

Se infatti, è opportuno che i settori dissidenti di Spagna e Portogallo lavorino nella direzione di un riavvicinamento con il resto dei paesi iberofoni, lo stesso va fatto in Europa e nel Mediterraneo. Il 30 agosto 2010, in un discorso pronunciato di fronte alle autorità militari italiane nella Caserma di Tor di Quinto a Roma in occasione dell’anniversario della firma del Trattato di amicizia italo-libica, il Rais Muammar Qadafi pronunciò le seguenti parole: «Mi rivolgo a voi italiani ed a tutti i popoli che si affacciano sulle coste del Mediterraneo. E’ giunta l’ora che il Mediterraneo torni ad essere Mare Nostrum, nel senso che deve appartenere unicamente a quelle nazioni posizionate sulle sue rive. Non possiamo più consentire che potenze lontane geograficamente debbano conservare la loro supremazia militare e marittima sul nostro mare. Dobbiamo, prima o poi, iniziare a liberarcene perché ormai i tempi sono maturi per una svolta strategica». Alcuni ricordano che queste affermazioni, dal forte significato sia politico che simbolico, fatte in quella determinata sede, suscitarono la commozione dei militari italiani lì presenti. E’ proprio da questo che bisogna ripartire nella nostra dimensione regionale, il Mediterraneo deve ritornare ad essere Mare Nostrum e noi, europei del sud, abbiamo la missione storica di far sì che questo accada. Non tutti i paesi in Europa hanno la consapevolezza del presente – nei Balcani e nell’Est ad esempio – eccetto per il Patto di Visegrad, debole tentativo dei paesi aderenti di ricavarsi un minimo spazio d’indipendenza all’interno dell’U.E. – in seguito alla disgregazione della Iugoslavia e la caduta del comunismo, la modalità con cui si è compiuta l’integrazione di alcune nazioni nell’U.E. e incoraggiata l’aspirazione di altre ad essere integrate, ha dilatato i tempi di maturazione di un malcontento che metta in evidenza la vera natura usuraia di quel sistema al quale oggi danno il loro consenso con entusiasmo. Sicuramente però, dai paesi iberici all’Italia e alla Grecia – con la quale condividiamo la stessa civiltà, lo stesso sangue ed oggi la stessa sorte – ci sono tutti i presupposti per poter cominciare a costituire un asse sul quale imperniare un’alleanza mediterranea in antitesi all’Unione Europea.

Non bisogna dimenticare, ovviamente, un altro grande paese latino e cioé la Francia che è sicuramente la nazione che negli ultimi anni ha rappresentato più di altre l’esplosione delle contraddizioni in seno all’U.E.. In Francia, lo scontro tra il paese reale e la politica di palazzo che si è avuto nella storia recente, non è altro che l’emersione di questioni intriseche all’anima di una nazione allo stesso tempo continentale e mediterranea, mittleeuropea e latina. Quello francese è un popolo che stenta a riconoscersi nella gabbia del liberalismo europeo e scalpita per ricongiungersi alla sua vera natura per ritrovare la sua vera vocazione.

La proposta da parte di settori della politica francese di adottare prima il francese e poi il latino come lingua ufficiale dell’Unione Europea è l’ennesima diatriba sul nulla da parte di politici liberali europeisti (di destra o di sinistra che siano). Una provocazione che cade nel vuoto per la sua irrealizzabilità nonostante i convincenti argomenti di Sundar Ramandane, i quali in teoria, non fanno una piega. Da un altro punto di vista però, la provocazione è sicuramente indice di quale sia il sentimento d’appartenenza della maggior parte dei francesi, il che è un fatto più che positivo. In ogni modo, che ci piaccia o meno, l’inglese è la lingua che oggettivamente si è affermata in questa epoca, che venga usata come lingua franca non è un problema in sè. Il dilemma sorge quando, anziché andare nella direzione di un mondo in cui ogni persona ha la possibilità di apprendere e parlare più lingue come fatto normale sin dall’infanzia – e nel caso di un blocco civilizzazionale pluriculturale come l’Europa dovrebbe essere un fatto naturale – se ne impone una sola come unico modello di riferimento. Oggi l’inglese sta penetrando e contaminando le altre lingue a tutti i livelli e le sta letteralmente sostituendo in ambito scientifico impedendo alle altre nazioni e culture l’elaborazione di un linguaggio accademico relativo a campi determinanti della scienza, della tecnica, addirittura della giurisprudenza. Questo sì, è da considerarsi un risvolto di quell’imperialismo culturale incentrato sul pensiero unico liberale ed un fenomeno al quale bisogna opporsi fermamente. In definitiva, per quel che ci riguarda, l’Unione Europea può continuare a parlare inglese – non ci interessa – la Nostra Europa parlerà tante lingue quante sono quelle europee, le quali non si limitano solo alle lingue nazionali; e tra di esse il latino, più vivo che mai nell’universo di lingue romanze che ha generato sin dall’epoca arcaica.

Ho capito che vi dichiarate sansepolcristi, rivendicando il primo fascismo, rivoluzionario e socialista. Rivendicate anche l’ultimo fascismo, quello della Repubblica Sociale Italiana e dei fascisti italiani e rivoluzionari come Farinacci o Bombacci? Fino a che punto la difesa della classe lavoratrice è importante nella tua visione di Quarta Teoria Politica?

Le uniche definizioni che facciamo nostre sono quelle di quarto-teorici e «socialisti», per noi è infatti estremamente importante la difesa della classe lavoratrice. Intendiamo il concetto di classe però, non in senso prettamente marxista, infatti oggi non si può far leva unicamente sulla classe come soggetto storico fondante. Il proletariato, la piccola e media borghesia come la stessa borghesia nazionale subiscono la medesima aggressione, seppur in diversa misura, da parte della superborghesia capitalista. L’instabilità e la manipolabilità, che sono i sentimenti dominanti della nostra epoca e che scaturiscono dal processo di precarizzazione al quale sono soggette tutte le classi subalterne, hanno posto l’umanità in generale in una posizione di perenne svantaggio di fronte ai veri detentori del potere che non è solo economico ma anche e soprattutto culturale.

Come sostiene il filosofo Diego Fusaro, quella che stiamo già vivendo, e che in prospettiva andrà radicalizzandosi, è un’epoca dominata da un capitalismo assoluto che corrisponde ad una rifeudelizzazione integrale della società con la global class apolide da una parte e una neo-plebe dall’altra. Quest’ultima è composta da individui atomizzati e reciprocamente ostili, omologati dal pensiero unico che li ha resi «fluidi», sradicati, senza identità, senza etica e principalmente flessibili nell’erogazione della forza lavoro così come nello stile di vita e nella composizione di classe. L’appartenenza di classe infatti, che già tendenzialmente con l’avvento della borghesia non era più determinata dall’essere ma dall’avere, oggi diviene un concetto ancora più mobile dal momento che tutte le vecchie classi borghesi e proletarie vengono centrifugate e riplasmate in unica classe dal nuovo ordine simbolico imposto dal pensiero unico dei dominanti, ovvero l’oligarchia apolide e finanziaria, la quale non fa altro che proiettare sulle restanti classi, quei tipi di mentalità e cultura delle quali si avvantaggia esclusivamente il ceto, sempre più ristretto, degli ammiragli della globalizzazione e del mondialismo.

A questo processo ideologico, che già Marx aveva messo in chiaro sostenendo che l’ideologia dell’intera società è la stessa ideologia della classe dominante, vanno affiancate sia le considerazioni di Heidegger – secondo cui l’intelligenza del computo dell’utile e del successo altro non è che l’intelligenza della mediocrità che resta mediocre anche quando essa agisce su scala politico-economica mondiale – sia l’intuizione di Hegel secondo cui un capitalismo senza limitazione etica, morale e politica produce necessariamente la plebe, cioè la moltitudine esclusa dai processi di formazione della modernizzazione capitalistica; nel nostro caso, una nuova plebe che quindi convoglia in sè, non solo il proletariato, ma tutte le vecchie classi sociali che non riescono più ad avere coscienza di sè, percepiscono l’ingiustizia subita, ma non possono organizzare tale percezione in un progetto politico incisivo. In questo senso un’indispensabile redenzione deve essere veicolata necessariamente da più vettori che passino per la classe – rivalutando la mitica anti-borghese del marxismo che comunque aveva individuato il nemico – ma anche per l’identità di popolo rivalutando il senso di appartenenza, seppur non in senso suprematistico, ad una determinata cultura, luogo, fede, stirpe.

Sebbene oggi non basti riproporre ideologie, schemi ed estetiche passate né tantomeno fondere in sintesi forzate modelli contrapposti, ma vi sia bisogno di una nuova amalgama che sia frutto di una vera e propria metanoia da parte di genti immerse in quella contemporaneità alla quale per forza di cose è necessario attingere; riteniamo, da italiani, quello che avvenne in Piazza San Sepolcro a Milano poco più di un secolo fa, sicuramente un importante incipit per il compimento di tale percorso. Indipendentemente dai giudizi sugli sviluppi successivi, il Sansepolcrismo, è stata l’intenzione leale e autentica di uomini, appartenenti alle più svariate forze e ideologie, determinati a superare la dicotomia destra-sinistra, il parlamentarismo borghese, le divisioni in seno al popolo e dare alla lotta di classe una nuova dimensione nazionale e, aggiungerei, metafisica, il che è sicuramente un’intuizione che proietta quell’esperienza inesorabilmente nell’attualità.

Sebbene NR-Italia non faccia propria questa definizione, abbiamo ottimi rapporti con Hesperia – Azione Sociale Identitaria, alla cui fondazione ho personalmente collaborato dando un mio modesto contributo, che si rifà particolarmente all’esperienza sansepolcrista traducendone egregiamente gli intenti ideologici in termini contemporanei e traslandoli nella realtà attuale, tra l’altro con un ottima radicazione sul territorio. Degni di profonda stima sono gli esponenti apicali di detto movimento i quali, provenendo da schieramenti che negli anni ’70 e ’80 erano su barricate opposte, oggi lavorano fianco a fianco per elaborare una sintesi tra la teoria gramsciana e le più genuine istanze della destra sociale cercando così di superare la dicotomia destra-sinistra, ormai obsoleta e funzionale allo status quo, da una prospettiva ideologica e non post-ideologica come invece già fatto dal M5S rivelatosi in tutto e per tutto una creatura del sistema.

Un’altra esperienza coeva del Sansepolcrismo alla quale noi di NR-Italia ci sentiamo molto vicini è il laboratorio d’annunziano sorto in seguito all’Impresa di Fiume. Facciamo nostra l’idea di un futuro paludato d’antico così come era stata concepita da G. D’Annunzio, non serve essere nostalgici di epoche e glorie passate ma piuttosto affrontare il futuro senza perdere la connessione con esse. Come anche sostiene A. De Benoist: «La tradizione non è il passato. La tradizione ha a che vedere con il passato né più né meno di quanto ha a che vedere col presente o col futuro. Si situa al di là del tempo. Non si riferisce a ciò che è antico, a ciò che è alle nostre spalle, bensì a ciò che è permanente, a ciò che ci sta “dentro”. Non è il contrario dell’innovazione, ma il quadro entro cui debbono compiersi le innovazioni per essere significative e durevoli»; consideriamo che l’intento dei Legionari di Fiume sia stato proprio quello di affermare ciò in un contesto di modernizzazione qual era quello del primo conflitto mondiale. Facciamo nostro l’idealismo della Carta del Carnaro di De Ambris e consideriamo che lo spirito umano possa e debba ancora avere priorità sulla razionalizzazione, che l’umanità possa e debba prevalere quindi sul capitalismo senza anima. Come D’Annunzio guardiamo a Oriente, «l’Italia delusa, l’Italia tradita, l’Italia povera si volga di nuovo all’Oriente dove fu fiso lo sguardo de’ suoi secoli più fieri. Volgiamo le spalle all’Occidente che ogni giorno più si sterilisce e s’impetta e si disonora in ostinate ingiustizie e in ostinate servitù. Separiamoci dall’Occidente […] diventato una immensa banca giudea», queste parole suonano più attuali che mai e denotano quale sia stata l’idea lungimirante che il Vate aveva per l’Italia e per l’Europa stessa.

Per quanto riguarda la nostra posizione rispetto al fascismo in sé, crediamo che sia necessaria un’analisi oggettiva del fenomeno che sia scevra di ogni partigianeria e giudizio affrettato anche se a posteriori. Il fascismo è stato innanzitutto la strategia di un peculiare rivoluzionario socialista, costellata di compromessi e condizionata dall’apporto di ideologie contrastanti che agivano nella cultura italiana, rivolta principalmente all’emancipazione del proletariato. Ci sono aspetti della storia del fascismo che volentieri vengono taciuti sia dalla storiografia ufficiale, cioè la storia scritta dai vincitori, sia da quella che in qualche modo cerca di tenere viva la memoria del Ventennio come l’epoca d’oro del nostro paese. Poco si parla ad esempio di quel periodo di tregua, successivo all’iniziale trambusto della violenza squadrista e anti-fascista e precedente all’inizio del secondo conflitto mondiale, in cui lo Stato avviato da Mussolini diventa esempio virtuoso per tutto l’Occidente grazie all’importante interventismo statale nell’economia diffuso su vari livelli e alla ristrutturazione radicale dell’apparato politico-economico che impone un cambio di marcia su scala globale. Quel periodo all’insegna di un modello che persino gli anglosassoni si vedranno costretti ad imitare, elogiare e fare proprio chiamandolo New Deal, segna l’inizio di una insolita convergenza di intenti tra forze diametralmente opposte che sembra comincino a comprendere l’opportunità che si sta configurando ma che non riescono a cogliere, cadendo, sia le une che le altre, nei consueti tranelli liberali.

La strategia di Mussolini, inizialmente vincente, venne, infatti, salutata con approvazione anche a sinistra, come dimostra “L’appello ai fratelli in camicia nera” del 1936 firmato dalla nomenklatura del P.C.d’I., tra cui Palmiro Togliatti, e in cui si cercava un’inedita alleanza per combattere congiuntamente la borghesia e il capitalismo nazionale e trans-nazionale. L’appello dei comunisti cercava di risolvere la spaccatura che aveva provocato l’uscita di Benito Mussolini dal Partito Socialista nel mondo della sinistra italiana, unendo finalmente gli italiani in un unico bloccoopposto al grande capitale e alla borghesia. L’appello era motivato non solo dalla posizione di forza del Partito Nazionale Fascista che aveva appena proclamato l’Impero con la conquista dell’Etiopia, ma anche dalle suddette politiche economiche e sociali del fascismo che avevano dato impulso ad una nazione che fino a poco tempo prima era tra le più povere d’Europa. Politiche che convergevano con i programmi della sinistra più intransigente e che si richiamavano alla fondazione dei Fasci di Combattimento del 1919 in Piazza San Sepolcro. Dall’altro lato, la rivista Critica Fascista di Giuseppe Bottai aveva scritto: «L’Italia e la Russia sono i soli (per quanto autentici) principi di rinnovamento del mondo moderno. O con Mussolini o con Lenin: non c’è scampo per la decrepita borghesia che ci odia». Il Regime, infatti, non negava l’esperienza bolscevica: nonostante si proponesse di superarla, disconoscendone la natura utopica del materialismo storico che non teneva conto dell’elemento volontaristico dell’uomo, ne conservava l’idea secondo la quale il popolo dovesse essere il soggetto primario della politica. Se queste condizioni non trovarono sbocco in quel determinato frangente non è una questione imputabile ad errori o ad una eventuale carenza di lungimiranza da entrambe le parti; nessuno in quel momento, infatti, poteva prevedere che «la fine della storia» non sarebbe passata per il superamento del capitalismo da parte del socialismo, in quello che sembrava essere un vero e proprio dogma incontestabile, ma essa sarebbe arrivata – o quanto meno così è stato fino a questo momento – con il dominio totale dell’economia capitalista, della cultura liberale, della democrazia borghese come Francis Fukuyama si affrettò a mettere per iscritto dopo il crollo del blocco sovietico negli anni ’90. Le oligarchie che oggi dominano il mondo sono il frutto di quell’egemonia che impedì il configurarsi di un’alleanza eurasiatica socialista su grande scala e che determinò le sorti del fascismo spingendolo sempre più nell’orbita di una Germania ormai distante da opzioni nazional-rivoluzionarie diverse da quella puramente hitleriana, presentatasi come Destino inevitabile e che alla fine marcò l’epilogo del Terzo Reich, come Ernst Niekisch denunciò non solo nella sua opera “Hitler: una fatalità tedesca”, ma anche attraverso la sua incessante attività dissidente che lo portò all’internamento fino al ’45.

Sebbene bisognerà aspettare la fine degli anni ’60 per avere interpretazioni della teoria egemonica di Gramsci da un punto di vista di destra o quanto meno contrapposto alla narrativa globalista, come ad esempio lo si può cogliere ne “La disintegrazione del sistema” di Franco Freda o ne “La dottrina delle tre liberazioni” di Carlo Terracciano, non si può assolutamente non riconoscere l’importanza dell’operato di quella grande figura che fu Nicola Bombacci, un socialista testardo la cui vita fu votata a unire le due rivoluzioni, quella fascista e quella comunista, al fine di sconfiggere definitivamente il capitalismo e che sicuramente con le sue intuizioni aveva anticipato i tempi in maniera non indifferente. Un uomo d’azione che noi in larghissima parte riconosciamo come punto di riferimento nella costruzione di un discorso trasversale anti-borghese e anti-capitalista per l’Italia. Dalla fondazione del P.C.d’I. con Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga all’elogio del Corporativismo integrale e la teorizzazione dell’autarchia fascista, da leader in seno al Biennio Rosso all’intesa con il Capitano Giuseppe Giulietti, leader della F.I.L.M., il sindacato dei lavoratori del mare, attraverso la quale contribuì a cementare l’avvicinamento tra fiumanesimo e sinistra oltranzista; l’opera di Bombacci è sempre stata all’insegna di un radicalismo dalle più disparate sfumature ma con una visione chiara che andava oltre gli schieramenti e un obiettivo ben preciso: abbattere il capitalismo borghese in qualunque modo e con qualunque mezzo la storia mettesse a disposizione. Nicola Bombacci non smentisce la sua natura di rivoluzionario socialista passionario e idealista, puro e non incline ad intrighi e compromessi, neppure quando l’amico Mussolini, fuori tempo massimo, tenta di conciliare seriamente classe lavoratrice e patria, socialismo e nazione in quello che fu l’ultimo atto del fascismo: la Repubblica Sociale Italiana, ultima trincea del sogno di dignità e grandezza che aveva infervorato gli animi italici per i precedenti vent’anni. Nicola Bombacci non ci pensa due volte prima di gettarsi in quell’ultima utopia senza speranza coerentemente con il suo spirito rivoluzionario tanto anarchico quanto marxista e fascista allo stesso tempo e in linea con la sua personale idea di rivoluzione che trascendeva le ideologie, le quali in relazione alla sua vita vissuta, apparivano poco più che strumenti al servizio di un disegno di ordine superiore. La fine della R.S.I. con la morte gomito a gomito del fondatore del Partito Comunista e del Duce del Fascismo è sicuramente un evento dall’importante carica simbolica che dovrebbe far riflettere chiunque oggi si riconosca in quella «periferia» che lotta contro il «centro». Infatti, con Nicola Bombacci, che moriva accanto a Mussolini gridando «viva il socialismo!», si concluse l’esperienza di molti giovani che avevano aderito al fascismo da sinistra e che, terminata la guerra, confluirono nelle file del P.C.I. nel quale riconoscevano il proprio anti-americanismo; mentre l’M.S.I., erede legittimo del P.N.F., avendo perduto colui che aveva saputo preservare gli equilibri interni, si sarebbe collocato nel campo atlantista. Prendeva vita pertanto, quella radicale polarizzazione che per decadi divise i “Rossi” dai “Neri” e che non fece altro che spianare la strada al liberalismo e alle plutocrazie che avrebbero banchettato sulla nostra Italia.

Julius Evola è spesso visto come un fascista elitario e aristocratico. Dicci come un movimento basato sulla Quarta Teoria Politica può unire il pensiero evoliano con il socialismo nazionale e rivoluzionario.

Il processo che ha portato al decadimento morale della società e alla formazione di una neo-plebe in seno alle vecchie classi borghesi e proletarie non ha risparmiato neanche l’aristocrazia. Proletariato e borghesia nazionale sono state agglutinate da una medesima cultura di stampo nichilista, edonista, consumista che mentre permetteva l’accesso ai medesimi lussi e beni di consumo, contemporaneamente ridimensionava indistintamente la qualità di vita delle persone trasformate in «individui» egocentrici e isterici con l’illusione di un’indipendenza fondata sulla compulsività di una vita moderna sempre più frenetica; spesso lavoratori autonomi schiavi di sé stessi, in competizione tra loro, convinti di essere fautori del proprio destino in virtù di disvalori elevati a valori. La sorte dell’aristocrazia, costretta a borghesizzarsi per poter sopravvivere, non è stata molto diversa. Già la Rivoluzione Francese con i suoi valori fittizi di libertà, fratellanza, uguaglianza aveva avviato un processo di democratizzazione che sostanzialmente consisteva in un appiattimento verso il basso dell’intera società ma con un cambio ai vertici. La vecchia classe nobiliare in questo contesto accettava le regole della nuova classe dominante, la borghesia, secondo la quale non contava più l’essere ma l’avere. La rifeudalizzazione della società, conseguente alla radicalizzazione di questo dominio, oggi non passerà più per il sangue ma per il nuovo criterio che sarà il denaro trasformato in potere. Alla luce di un contesto in cui l’individualismo va di pari passo con il sovvertimento dell’ordine verticale tradizionale, Julius Evola è un importante punto di riferimento per chi dovrà guardare al di là della contingenza storica ed essere avanguardia della Rivolta contro il mondo dello sgretolamento, dell’omologazione e dell’annichilimento. Evola affermava: «Si tratterebbe di assumere, presso ad uno speciale orientamento interiore, i processi più distruttivi dell’età moderna per usarli ai fini di una liberazione. Come in un ritorcere il veleno contro sè stesso o in un “cavalcare la tigre”», ed è proprio questo che si propone la Quarta Teoria Politica, mettere in relazione lo Spirito Legionario dell’uomo in piedi tra le rovine, con la metafisica del caos dell’epoca attuale per poter cambiare di segno il nichilismo negativo dilagante mutandolo in vitalismo.

A tal riguardo, A. Dugin fa notare infatti, che l’Individuo Assoluto di Evola nulla ha a che vedere con il concetto moderno e liberale di «individuo» che è un ego atomico e completamente chiuso a misurazioni trascendentali a differenza dell’Atman indù che è qualcosa di totalmente diverso. Un altro appunto di A. Dugin riguardante la visione di J. Evola, che noi riteniamo di importanza fondamentale e calzante con quanto detto sopra, riguarda la relazione tra le tre funzioni di Georges Dumézil e le tre classi sociali della storia europea. Secondo l’analisi di A. Dugin, negli studi di Dumézil la terza casta, quella dei Vaishiya, coincide con gli agricoltori nelle società sedentarie e con i pastori nelle società nomadi ma in nessun caso con la classe dei mercanti e dei commercianti. Quindi non c’è relazione tra Terza Casta e Terza Classe la quale si sviluppa a partire dai fuori-casta servi dei guerrieri. La vittoria della borghesia sul proletariato, cioè del liberalismo sul comunismo, non sarebbe stata quindi la vittoria della terza funzione sulla quarta, bensì quella sui Vaishiya di una classe parassitaria che usurpava le funzioni tra gli Kshatriya e gli stessi Vaishiya.

Il proletario urbano, secondo A. Dugin, non sarebbe altro che l’erede del Vaishiya impoverito dall’avvento della modernità e che quindi si troverebbe più in alto rispetto ad un commerciante nella scala delle caste. La rivolta del proletariato contro la borghesia, intesa in questo modo, non si articolerebbe dal basso verso l’alto ma sarebbe un tentativo di riportare in vigore l’ordine castale. Questo è visibile nell’esperienza del socialismo reale che non è stato vincente nelle società industrializzate come aveva predetto K. Marx, ma al contrario, proprio nelle società contadine nelle quali si è manifestato secondo i contorni della società tradizionale. Questo stride con ciò che aveva proposto J. Evola nel periodo post-bellico quando affermava la possibilità di alleanze tra il tradizionalismo e la borghesia anti-comunista.

Mi permetto di aggiungere che, impulsi anti-monarchici tra i più significativi del XX secolo, come fu il rivoluzionismo fascista di Farinacci o le rivoluzioni comuniste in Russia e Cina, quella baathista in Libia e quella islamica in Iran, ebbero l’obiettivo di spodestare un’aristocrazia, dimostratasi debole e corruttibile dai tempi esattamente come le masse, ormai imborghesita e ostaggio delle plutocrazie occidentali, e che tali impulsi andavano nella direzione del ripristino del modello e dell’idea di Imperium. Anche nel caso delle rivoluzioni di stampo socialista e materialista, esse ricollegarono i paesi in cui ebbero esito, alla tradizione e alla specificità culturale dei propri popoli. Proprio su queste basi è possibile ricostruire l’idea di un’Aristocrazia della Spada attraverso uno Stato forte che formi i giovani, li renda i più saggi dei Brahmin ed i più prodi degli Kshatriya, e saranno questi aristoi – non del sangue ma dello spirito – a guidarla. Un’Aristocrazia adatta ad una nuova incombente epoca che si sostituisca alle odierne casate assorbite dalla casta dei mercanti, sia nella pratica che nell’ethos, con le loro dimostrazioni ridicole di ricchezza ed i loro costumi ricchi di forma e vacui di sostanza la cui unica funzione è quella di sopperire alla propria inerzia. D’altra parte se oggi nel mondo consideriamo un modello rigoroso di ordine gerarchico, verticale, apollineo fondato sullo Spirito, che rispecchi l’antica suddivisione castale indoeuropea e racchiuda in sé la marzialità romana e la disciplina spartana, non lo troviamo nella nobiltà Europea troppo occupata dal gossip quando non a prendere ordini dalla grande finanza, tantomeno nelle varie monarchie arabe e asiatiche in molti casi create dal nulla dagli inglesi. Al contrario, due esempi estremamente vicini a questo modello, spirito, ripartizione, sono la Repubblica Popolare di Corea in cui la casta dei Brahmin è incarnata dagli intellettuali e la Repubblica Islamica dell’Iran in cui tale casta è incarnata dagli Ayatollah con al seguito i militari (Kshatriya) e il popolo (Vaishiya). In entrambi i casi l’appartenenza di casta è sì, dinamica e all’insegna della mobilità sociale come anche ci sembra giusto che sia, ma sicuramente basata sul merito e non certo sulla ricchezza. Dunque riteniamo che l’elemento socialista sia imprescindibile nella lotta antiborghese, come anche lo era in larga parte nella Konservative Revolution; tanto quanto sia inscindibile dallo spirito tradizionale, che come un fiume carsico all’improvviso è emerso in superficie con tutta la sua forza manifestandosi come qualcosa di immanente anche in quei contesti che si prospettavano essere dominio del materialismo come le rivoluzioni Russa e Cinese.

Come sostiene sempre A. Dugin, credo che il pensiero del filosofo italiano, le cui scelte politiche, possiamo dire, erano state condizionate dall’inesattezza di valutazioni e previsioni determinate dal contesto storico, debba oggi passare per una riconciliazione tra il proprio aspetto politico di «destra» e quello metafisico di «sinistra». D’altro canto la posizione anti-borghese intransigente di Julius Evola lo allontana dal classico conservatorismo occidentale facendo trasparire la sua anima anarchica – in senso jungeriano – che non si limita a contestare i valori attuali in favore di quelli passati ma, rifiutando le forme di tradizione adattate alla modernità e preferendo la rottura radicale con essa al fine di ripristinare la vera Tradizione concepita come sacralità organica, guarda oltre puntando alla riconquista di un passato primordiale perduto. Riconquista che deve per forza di cose passare per l’esperienza traumatica della rivoluzione, che sebbene venga intesa nella sua accezione etimologica (revolutio -onis: rivolgimento, ritorno; der. di revolvĕre: rivolgere), implica comunque la rivolta contro la consuetudine e il rifiuto viscerale dello status quo. Queste caratteristiche del pensiero di J. Evola, lo rendono sicuramente un punto di riferimento super partes al fine di coniugare gli intenti delle forze «periferiche» contemporanee e amalgamarle in quel processo alchimico che è la Quarta Teoria Politica.

Anche in questo caso, l’Heartland, cioè la Russia e la sua prossimità eurasiatica costituisce il nucleo centrale nel quale questi processi stanno prendendo forma concretamente e in maniera naturale se pensiamo ad esempio al fronte costituito da comunisti e cristiano-ortodossi che si oppone alle altrettanto eterogenee orde liberali della globalizzazione. La Russia, inoltre, oggi rappresenta sicuramente quella Terza Roma che incarna la formula del ghibellinismo evoliano di Impero nel quale la sacralità immanente si contrappone alla concezione occidentale di separazione e discontinuità tra Papa e Re. La critica di J. Evola al guelfismo cattolico, attraverso la quale si respinge al contempo sia lo Stato laico che quello clericale, trova naturale espressione nel sentire tipicamente russo in continuità con l’idea di Sacrum Imperium che funge da Katehon, ultimo bastione contro l’avanzata dell’Anticristo. Per quanto riguarda la nostra Europa latina e mediterranea, più che l’ideazione di un tipo di ritorno alle origini che nell’epoca odierna assume spesso e volentieri la forma di un improbabile neo-paganesimo funzionale alla disgregazione delle identità e dagli effetti affatto differenti dal materialismo post-moderno, tale critica evoliana dovrebbe servire da volano al fine del recupero della dimensione escatologica del cattolicesimo in continuità con il passato pagano e imperiale, nel segno del Cristo/Sol Invictus simbolo del compimento civilizzazionale della Roma antica; e in sintonia con la dottrina esoterica dell’Unità Trascendente delle Religioni attraverso la riabilitazione e l’incentivo di quel cattolicesimo rurale, popolare e misterico mai allontanatosi dai Miti delle origini, nonché di quello di stampo ghibellino e federiciano che nella storia medievale si contrapponeva alla sovrastruttura vaticana, e nel quale si manifestarono e agirono quelle forze di ordine e gerarchia provenienti dalle influenze del mondo romano-germanico come affermato dallo stesso Evola in “Rivolta contro il mondo moderno”, e che in determinati frangenti storici, prevalsero su quelle originate dalla tradizione giudaica connettendo il cattolicesimo con la Tradizione indoeuropea.

Vuoi aggiungere qualcos’altro? Grazie mille ancora per aver partecipato a questa intervista a Nihil Obstat.

Ringrazio la rivista Nihil Obstat per avermi permesso di presentare la nostra organizzazione NR-Italia, inoltre un ringraziamento speciale a Fernando Rivero per avermi dato l’opportunità di partecipare a questa intervista. Mi auguro che in un futuro non troppo lontano ci siano altre collaborazioni che possano cementare i nostri rapporti per far crescere la dissidenza in questo contesto complesso e unico che è il nostro Mediterraneo.

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