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Il liberalismo contro i popoli

Lamartine devant l’Hôtel de Ville de Paris le 25 février 1848 refuse le drapeau rouge (Henri F. E. Philippoteaux, XIX sec.)

Di Alain De Benoist

Intervento di Alain de Benoist, pronunciato durante l’VIII convegno annuale dell’Institut Iliade, sabato 29 maggio 2021.

“Liberalismo contro i popoli”. Questa espressione può essere considerata in due modi diversi. Da una parte c’è la teoria liberale, l’ideologia liberale, una delle cui caratteristiche è proprio quella di negare l’esistenza dei popoli. D’altra parte, c’è la pratica. Si esercita attraverso un sistema, il sistema capitalista, che a mio avviso è inseparabile dal liberalismo come dottrina o ideologia, poiché può essere definito come un dispositivo generale di controllo del mondo tendente a stabilire il primato del valore di mercato sul tutti gli altri, il che implica proprio la generalizzazione del modello antropologico liberale, che è quello dell'”uomo economico”, dell'”Homo œconomicus”. Questo è il motivo per cui parlare di liberalismo ignorando il capitalismo significa parlare nel vuoto.

Perché la teoria liberale nega l’esistenza dei popoli? Perché poggia su una base antropologica che è insieme “economista” e individualista. Storicamente, la modernità liberale corrisponde al momento in cui la società non è più posta al primo posto, ma è l’individuo a essere posto come anteriore all’insieme sociale, che non è più un semplice aggregato di desideri individuali. Considerato in modo astratto come un essere fondamentalmente indipendente dai suoi simili, totalmente proprietario di se stesso, che non è vincolato da alcuna appartenenza situata a monte di se stesso, l’uomo viene allo stesso tempo ridefinito come un agente che cerca costantemente di massimizzare il suo migliore interesse, adottando così il comportamento del trader sul mercato. Questa svolta senza precedenti è proprio opera del liberalismo, la cui comparsa coincide con l’ascesa della classe borghese nelle società occidentali.

Fondamentalmente, il liberalismo pensa al mondo sulla scala dell’individuo. Per i pensatori liberali l’uomo, lungi dall’essere costituito tale dai suoi legami con gli altri, deve essere pensato come un individuo svincolato da ogni appartenenza costitutiva, cioè al di fuori di ogni contesto culturale o sociale. La libertà, posta come diritto inalienabile, si riduce alla stessa libertà individuale concepita come emancipazione da tutto ciò che eccede l’individuo. Si ritiene inoltre che la sovranità non debba estendersi al di là dell’individuo o essere esercitata al di sopra di lui, il che delegittima la nozione di sovranità nazionale o di sovranità popolare. L’idea generale è che l’uomo è soprattutto ciò che ha liberamente scelto di essere, che ha il pieno controllo delle sue scelte e che deve essere lasciato libero di costruirsi, non da qualcosa di già presente, ma dal nulla. Questa idea comporta ovviamente indifferenza verso le diverse concezioni del bene. Come dice giustamente Pierre Manent, il liberalismo è prima di tutto la rinuncia a pensare la vita umana secondo il suo bene o il suo fine. Il risultato è la scomparsa di ogni idea di bene comune.

“La società non esiste”, diceva Margaret Thatcher

Da questo punto di vista, i popoli sono semplici aggregati di individui, il che significa che non hanno caratteristiche specifiche di popolo che permettano loro di distinguersi dagli altri popoli. Lo stesso vale per le comunità, le nazioni e le culture. “La Francia è solo un aggregato di esseri umani”, afferma l’economista liberale Bertrand Lemennicier. “La società non esiste” (“Non c’è società”), disse Margaret Thatcher. La società non è più infatti altro che il prodotto contingente delle volontà individuali, una semplice assemblea di individui che cercano tutti di difendere e soddisfare i propri interessi particolari. Tale società non deve più essere governata, ma gestita come ausiliaria del mercato. Non siamo molto lontani dal vecchio sogno sansimoniano di sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose.

Il liberalismo, da questo punto di vista, è direttamente antagonista all’affermazione delle identità collettive. Un’identità collettiva non può infatti essere analizzata in modo riduzionista, come semplice somma delle caratteristiche possedute dagli individui riuniti all’interno di una data comunità. Richiede che i membri di questa collettività abbiano la chiara consapevolezza che la loro appartenenza abbraccia o supera il loro essere individuale, vale a dire che la loro identità comune risulta da un effetto di composizione. Implica anche riconoscere che esistono, all’interno di un dato insieme, proprietà emergenti distinte dalle caratteristiche degli individui singolari che lo compongono. Tuttavia, il liberalismo nega l’esistenza di queste proprietà emergenti – quelle che rendono una foresta più di una somma di alberi, un popolo più che una somma di individui.

L’essenza del capitalismo è la negazione dei limiti e dei confini

Vediamo ora cosa sta succedendo dalla parte del capitalismo. Diciamo innanzitutto che l’errore più grande che potremmo fare sarebbe quello di vederlo solo come un sistema economico. Il capitalismo non è principalmente un sistema economico, ma un “fatto sociale totale” (Marcel Mauss), da cui deriva la forma feticizzata che le relazioni sociali assumono nelle società liberali. Inutile quindi cercare di valutarne il valore in termini di reale o presunta “efficacia”. Il sistema capitalista è senza dubbio superiore all’efficienza nella produzione di merci, ma l’efficienza non è fine a se stessa. Qualifica sempre e solo i mezzi utilizzati per raggiungere un fine, senza dirci nulla sul valore di questo fine. Le merci fanno guadagnare denaro, il che ti consente di produrre più merci, che ti permettono di creare più soldi. Il plusvalore così liberato permette la trasformazione del denaro in capitale, e la sovraaccumulazione del capitale permette al denaro di crescere perennemente. Ma il capitale è prima di tutto un rapporto sociale che plasma un immaginario specifico e coinvolge modi di vivere ma anche di concepire il mondo.

L’essenza del capitalismo è l’illimitatezza, il “sempre di più”, la negazione dei limiti e delle frontiere, la negazione della misura, e soprattutto della misura umana. La sua caratteristica fondamentale è il suo orientamento verso un’accumulazione senza fine in entrambi i sensi: un processo che non si ferma mai e che non ha altro scopo che la valorizzazione del capitale. È questa illimitatezza quanto negli intenti come nella pratica che fa del capitalismo un sistema basato sull’eccesso (hybris), la negazione di tutti i limiti.

L’abolizione delle frontiere è necessaria al libero scambio ed al principio del “laissez faire, laissez passer”. Il capitalismo liberale esige infatti che tutto ciò che può ostacolare gli scambi di mercato venga progressivamente sradicato. Richiede la libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali. Questo è uno dei motivi per cui non ha nulla da obiettare all’immigrazione, l’altra ragione sta nel fatto secondo cui concepisce l’insediamento dei territori solo in termini di individui: un milione di extraeuropei che vengono a stabilirsi in Europa sono semplicemente un milione di individui che vengono a unirsi a milioni di altri. A ciò si aggiunge il principio della libertà individuale, l’unico riconosciuto dai teorici liberali: ad ogni uomo deve essere riconosciuto il diritto di muoversi a suo piacimento (sempre inteso, come dice Hayek, che la libertà economica abbia la precedenza sulla libertà politica). “L’immigrazione, si legge recentemente su un sito liberale, resta un’espressione di libertà individuale che va salvaguardata” (Contrepoints, 23 aprile 2020)!

La società liberale è quindi sia una società di individui che una società di mercato.

In tutto questo sistema, il denaro occupa ovviamente un posto centrale. Ne Il Capitale, Marx giustamente scrive che «il denaro è la merce che ha carattere di alienazione assoluta, perché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci». Aggiunge che «il movimento dei capitali non ha fine né misura, poiché la valutazione del valore esiste solo attraverso la circolazione del denaro considerato capitale». Georg Simmel, dal canto suo, ha mostrato chiaramente che la natura intrinseca dell’economia basata sul denaro è quella di accantonare la questione dei fini a favore di quella dei mezzi. In quanto equivalente universale, il denaro è ciò che permette di valutare tutto, di quantificare tutto con l’aiuto di un’unica misura, riducendo sistematicamente il valore al prezzo. Creando una prospettiva da cui le cose più diverse possono essere valutate da un numero, il denaro le rende in qualche modo uguali: riduce tutte le qualità che le contraddistinguono a una semplice logica del più e del meno. Ora, qualsiasi quantità, qualunque essa sia, può sempre essere aumentata di un’unità. Ad ogni numero è sempre possibile aggiungere una cifra, in modo che il migliore venga automaticamente confuso con il più. E ciò di cui si può sempre avere di più, non se ne può mai avere abbastanza.

La società liberale è dunque insieme una società di individui e una società di mercato dove la ragione economica subordina tutti i rapporti sociali e che fa del luogo della concorrenza generalizzata, della guerra di tutti contro tutti, dove ognuno vuole massimizzare il proprio interesse a scapito di quello degli altri. Il regno del capitalismo alla fine si traduce in una chiusura di significato che non ha praticamente precedenti nella storia. Questa chiusura di senso, di cui oggi vediamo gli effetti, contribuisce potentemente all’ascesa del nichilismo. In conclusione, direi quindi che il ripristino del comune e del bene comune è il programma che oggi si debba ofrrire a tutti gli antiliberali se vogliamo uscire da un mondo dove nulla ha più valore, ma dove tutto ha un prezzo.

Barricata sul Boulevard Voltaire durante la Commune de Paris, 1871

Mi resta un minuto che, se non si contasse il tempo, per me sarebbe un minuto di silenzio. Siamo al 29 maggio 2021. Ieri, 28 maggio, appena centocinquanta anni fa, si combattevano a Parigi le ultime battaglie della Comune del 1871. Le ultime barricate demolite, gli ultimi insorti massacrati, si iniziò un’atroce repressione che causò migliaia e migliaia di morti. La Comune di Parigi, comunista, comunitarista, federalista, univa due aspirazioni che non dovrebbero mai essere separate: la causa del popolo e il servizio della patria. È stato sia un movimento patriottico contro lo straniero invasore che un movimento socialista e proletario contro la borghesia capitalista, ed è per questo che voglio onorarne la memoria e renderle omaggio. Onore ad essa! Onore ai Communardi!

Come diceva Alexandre Marc, «quando l’ordine non è più in ordine, è in rivoluzione».

Traduzione di Alessandro Napoli

Fonte: revue-elements.com

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