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Alain de Benoist: «Drieu e Jünger erano conservatori rivoluzionari, desiderosi di salvaguardare i valori eterni»

Paesaggio con statua crollata (Carel Willink, 1942)

Di Benjamin Fayet

Intervista ad Alain de Benoist, a cura di PHILITT – Philosophie, Littérature et Cinéma.

Alain de Benoist è uno scrittore e giornalista. Teorico della “Nuova Destra”, ha partecipato alla fondazione delle riviste ÉlémentsNouvelle École e Krisis. La critica alla modernità, all’etnocentrismo, così come la difesa dell’autonomia locale sono al centro della sua prolifica opera (più di 50 libri e 3.000 articoli pubblicati). Ha recentemente pubblicato Ernst Jünger, l’operaio tra gli dei e i titani (Via Romana) in cui discute i legami tra le opere dell’autore di Nelle tempeste d’acciaio e Drieu la Rochelle.

Ernst Jünger e Drieu la Rochelle, entrambi veterani partiti per il fronte nel 1914, non possono essere studiati senza un’analisi del loro rapporto con la guerra. Questa esperienza fondante ha segnato profondamente la loro visione del mondo, così come il loro rapporto con la tecnologia. Contrapposti in prima linea, i due uomini svilupparono comunque una visione comune della guerra?

Ernst Jünger

Non c’è dubbio che la prima guerra mondiale abbia lasciato un segno indelebile su Drieu e Jünger: un’esperienza più esistenziale per Drieu, un’esperienza più interiore per Jünger. In Nelle tempeste d’acciaio, Jünger scrive: «Di tutti i momenti emozionanti vissuti in guerra, nessuno è così forte come quello dello scontro tra due squadre d’assalto nelle viscere anguste delle postazioni di battaglia». Il battesimo del fuoco avvenuto per Drieu il 23 agosto 1914 nella piana di Charleroi, in cui egli stesso addestrò diversi suoi compagni, gli rimase indimenticabile. È stata, ha detto più e più volte, l’esperienza più forte della sua vita. «Ho sentito in quel momento l’unità della vita. Lo stesso gesto di mangiare e di amare, di agire e di pensare, di vivere e di morire». In altre parole, si sentì improvvisamente capace, per un breve momento, di conciliare gli impulsi contraddittori che aveva sempre sentito dentro di sé. Aggiungiamo che Drieu e Jünger a volte combattevano nello stesso posto, su entrambi i lati della prima linea (ma non allo stesso tempo). E che quando partirono per la guerra, sembra che entrambi avessero una copia dello Zarathustra di Nietzsche nella bisaccia.

Detto questo, è anche il confronto di ciò che hanno in comune che rivela meglio, per contrasto, tutto ciò che li contraddistingue. Mentre Drieu andò al fronte come coscritto, Jünger si offrì volontario nell’agosto 1914. Due anni prima aveva già cercato di unirsi alla Legione Straniera. Sappiamo che il suo impegno, e il suo coraggio, gli faranno guadagnare quattordici ferite e la croce per merito. Rimase comunque fino alla fine a capo di una sezione d’assalto che non lasciò mai. Drieu non ha preso parte ai combattimenti se non in modo intermittente. A Verdun fu ferito dopo un solo giorno di combattimento, il 26 febbraio 1916, prima di essere evacuato. Stessa cosa a Charleroi, visto che a dicembre verrà assegnato al servizio ausiliario prima di essere nuovamente evacuato. Non ricevette la Croix de Guerre fino a dopo l’armistizio. In uno dei testi sugli scrittori (“Diario di un delicato”), lo riconobbe lui stesso: contrariamente a Erich Maria Remarque, l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale«né io né Montherlant siamo mai rimasti a lungo al fronte, e questo rende tutta la differenza». Davvero una grande differenza.

Sappiamo che i primi libri di Jünger trassero ispirazione dai suoi diari di guerra. Nelle tempeste d’acciaio, pubblicato per la prima volta per proprio conto nel 1920, e la cui seconda edizione nel 1922 riscuoterà un successo sempre crescente, mostra chiaramente che la prima guerra mondiale, da lui descritta quasi nel fervore dell’azione, è a l’origine della sua vocazione di scrittore. Lo stesso Drieu, ad eccezione delle sue prime due raccolte di poesie, Interrogation e Fond de cantine , scrisse poco sulla guerra. Ha aspettato vent’anni per scrivere i sei racconti che compongono La Commedia di Charleroi. (Inoltre, essendo stato riformato nel 1939, non parteciperà alla seconda guerra mondiale).

Drieu trae dalla guerra un sentimento di esaltazione eminentemente personale: la guerra è stata per lui l’occasione per vivere situazioni che non dimenticherà mai. Jünger, che apprezza il coraggio molto più di Drieu, lo vede come un modo per selezionare un tipo di uomo. Inoltre, in quel tempo aderì a una concezione bellicosa dell’esistenza («è la vita, sotto l’aspetto più terribile che il creatore le abbia mai dato»), anche a un misticismo della guerra, che non è affatto il caso con Drieu (che, negli anni ’20, tendeva addirittura al pacifismo). La guerra è ai suoi occhi un fatto della natura, e prima di tutto della natura umana: «La guerra non è istituita dall’uomo, non più dell’istinto sessuale; è una legge di natura, motivo per cui non possiamo mai sfuggire al suo impero». Si potrebbe dire che, paradossalmente, è nella guerra che l’uomo trova le condizioni per attuare la sua piena umanità – anche per fare la guerra senza odio per il nemico (il vero guerriero fa guerra per lui – prima ancora di farlo contro gli opposti). «Una civiltà può essere tanto superiore quanto vuole, se il nervo virile si rilassa, non è altro che un colosso dai piedi d’argilla».

I due scrittori, però, misurarono entrambi quanto la Grande Guerra, iniziata nel 1914 come guerra classica, si fosse trasformata a poco a poco in una guerra di un tipo totalmente nuovo: uno schieramento di gigantesche forze impersonali, un «duello di macchine così formidabili che accanto ad essa l’uomo non esiste, per così dire», diceva Jünger. Ma l’avvento della “guerra tecnica” – «questa guerra di ferro e non di muscoli» – provocò soprattutto orrore in Drieu, che vide in essa una «cattiva rivolta della materia resa schiava dall’uomo», un vero e proprio “macello industriale”, mentre in Jünger, che vede chiaramente come questa guerra somigli a una fucina vulcanica, dove gli elementi si scatenano in modo titanico, darà origine all’intuizione di un nuovo tipo umano, totalmente opposto a quello borghese: l’operaio, il cui “realismo eroico” sarebbe in grado di assicurare la messa in moto (Mobilmachung) del mondo. Mentre Drieu si attiene al lamento, per Jünger gli “eserciti di macchine” annunciano i “battaglioni di operai” , l’esperienza della guerra che deve conferire all’uomo una disposizione (Bereitschaft) alla “mobilitazione totale”, cioè a un desiderio per il dominio (Herrschaft) che si esprime attraverso la Tecnica. Drieu, anche se scrive che «l’uomo deve ora imparare a padroneggiare la macchina, che lo ha superato in guerra», non condivide in alcun modo questa visione, insieme ottimista e volontarista, che lo scrittore tedesco svilupperà nel 1932 nel suo famoso libro L’operaio, elogiando questa Tecnica di cui condannerà in seguito, sotto l’influenza del fratello Friedrich Georg, il carattere “titanico”.

Drieu e Jünger ovviamente concordano anche nel notare che la Grande Guerra pose fine alla guerra “formale” (Vattel) che conservava ancora qualche parentela con la guerra di cavalleria. Ma Jünger comprende anche che la guerra è ormai una “guerra totale”, un’espressione il cui significato deve essere chiarito. La guerra totale non è una “guerra assoluta” Absoluter Krieg) di cui parlava Clausewitz, che risulta solo da un’escalation agli estremi che può portare infine alla “guerra di annientamento” in cui il nemico, anche se non completamente distrutto, diventa incapace di continuare la lotta. L’idea più importante, che generalmente i circoli conservatori e reazionari non hanno ancora compreso, è piuttosto l’idea che la guerra non è più esclusivamente una cosa militare, e che la classica guerra interstatale sta per lasciare il posto alla guerra economica e imperialista. Ciò che Léon Daudet aveva intravisto molto chiaramente già nel 1918, nel suo libro precursore intitolato appunto La Guerra Totale : «È l’estensione della lotta agli ambiti politico, economico, commerciale, industriale, legale e finanziario».

I due scrittori hanno utilizzato l’utopia romantica – Jünger con Sulle scogliere di marmo o Heliopolis  e Drieu con Beloukia  o L’uomo a cavallo  – in un’epoca in cui il genere era ancora abbastanza raro. Al di là di questa somiglianza, i due scrittori condividono altri tratti comuni nella loro opera letteraria?

Non sono abbastanza critico letterario per rispondere adeguatamente a questa domanda. Dal punto di vista della scrittura, ciò che tuttavia mi colpisce di Drieu è la sua propensione a una certa forma di confessione, nella quale si consegna senza deviazioni o indulgenze nei suoi confronti. Lo si vede chiaramente nei testi da lui pubblicati dopo la sua morte, siano essi Récit secret o Journal 1939-1945 (che riprende il precedente). A meno che non mi sbagli, Jünger non si è mai arreso in quel modo e ovviamente non ne ha sentito il bisogno. Tutti i taccuini che teneva furono pubblicati durante la sua vita.

Come sottolinea Julien Hervier nel suo libro Due individui contro la storia: Drieu La Rochelle ed Ernst Jünger, «quello che colpisce in Drieu come in Jünger è la miscela esplosiva che avviene in loro tra un innegabile spirito reazionario e una volontà rivoluzionaria»Jünger fu così vicino alla fine della Grande Guerra a Ernst Niekisch, il pensatore del nazionalbolscevismo, e Drieu si rivolse al fascismo. Come è stato caratterizzato il loro rispettivo tentativo politico di una terza via oltre la destra e la sinistra nel periodo tra le due guerre?

Entrambi erano indiscutibilmente conservatori rivoluzionari, desiderosi di salvaguardare valori che consideravano eterni, ma allo stesso tempo consapevoli che l’avvento del mondo moderno ha creato rotture irreversibili. Ma secondo me la somiglianza non va molto oltre. L’impegno politico di Jünger è una diretta estensione della sua esperienza al fronte: dopo aver perso la guerra, il soldato al fronte deve “vincere la nazione”. Da questo punto di vista, la sconfitta tedesca può diventare anche un vantaggio: «La Germania è stata sconfitta, ma questa sconfitta è stata salutare perché ha contribuito alla scomparsa della vecchia Germania […] La guerra doveva essere persa per vincere la nazione». Niente del genere con Drieu, che si è davvero coinvolto nella politica solo quando Jünger ha iniziato a voltare le spalle.

All’inizio degli anni ’20, Ernst Jünger fu rapidamente considerato lo scrittore più brillante della generazione al fronte. Stabilitosi a Lipsia dal 1923, dopo aver lasciato la Reichswehr, si avvicinò alle organizzazioni legate al Freikorps (la brigata Ehrhardt, l’organizzazione Rossbach) e ad alcune leghe bündisch annesse al Movimento Giovanile (Jugendbewegung), frequentando innumerevoli circoli e gruppi nazionalisti si getta a capofitto nella politica, con il fratello Friedrich Georg. Questo impegno incandescente, in un’epoca non da meno, lo ha portato a scrivere per tutta una pleiade di riviste (ArminiusVormarschDie KommendenWiderstand) circa 140 articoli in cui auspica un “nuovo nazionalismo” di ispirazione militare e nazional-rivoluzionaria. (Questi primi scritti, ripubblicati alcuni anni fa in Germania, poi tradotti in italiano, restano inediti in francese fino ad oggi). «Se vogliamo mettere il programma che Niekisch ha sviluppato su Widerstand sotto forma di secca alternativa», ha scritto, «sarà qualcosa del tipo: contro i borghesi, per i lavoratori, contro il mondo occidentale, per l’Oriente».

I maggiori saggi politici apparvero a partire dal 1929. Fu dapprima la prima versione de Il cuore avventuroso (1929), poi La mobilitazione totale (1931), e infine L’operaio, che fu pubblicato nel 1932, ad Amburgo, dalla Hanseatische Verlagsanstalt diretta da Benno Ziegler. In gioventù, senza dubbio proprio sotto l’influenza di Niekisch, Jünger giunse talvolta a vedere nei comunisti i migliori preparatori della “rivoluzione senza sentenze” che avrebbe celebrato ne L’operaio. Più tardi, tuttavia, e da un punto di vista completamente diverso, sottolineerà fino a che punto comunismo e nazionalsocialismo abbiano introdotto la tecnologia nella vita politica, dimostrando così la stessa adesione alla modernità, nell’orizzonte di una volontà di potenza che Heidegger ha saputo smascherare come semplice “volontà di volontà”. Analoghe riflessioni le troviamo in Ginevra o Mosca (1928), dove Drieu sottolinea che capitalismo e comunismo sono entrambi eredi della Macchina: «Entrambi sono i figli ardenti e oscuri dell’industria».

Forse già preoccupato per l’ascesa del nazismo, Jünger si allontanò radicalmente dalla politica proprio nel momento in cui Drieu si stava impegnando altrettanto risolutamente in essa. Pubblicò Socialisme Fasciste nel 1934, poi tre anni dopo entrò a far parte del PPF di Jacques Doriot, da cui prese le distanze nel 1938, accusandolo di non essere un “vero rivoluzionario” (le sue dimissioni definitive dal PPF risalgono al 1939). Nel 1933, però, si era avvicinato alla corrente di sinistra guidata da Gaston Bergery quando quest’ultimo lanciò un Fronte comune contro il fascismo!” Nel frattempo, va detto, lo spettacolo delle manifestazioni del 6 febbraio lo ha riempito di entusiasmo.

Nel Socialismo fascista, Drieu contrappone Nietzsche a Marx: «Nietzsche contro Marx, Nietzsche succedendo a Marx, Nietzsche vero profeta e ispiratore delle rivoluzioni del dopoguerra». Ma sarebbe un grave errore credere che Drieu consideri la politica come il dominio delle idee in azioneAl contrario, la vede come un’azione pura, in opposizione a ogni intellettualismo, come un mezzo per congedarsi dalle idee, cioè dall’intelligenza astratta. Ma mentre denuncia l’intellettualismo, non si ignora di essere un intellettuale. Nella “perorazione” del suo Exorde (che non sarà pubblicato fino al 1961, contestualmente al Recit secret), si legge: «Mi sono comportato in piena coscienza, secondo l’idea che mi ero formato dei doveri dell’intellettuale. L’intellettuale, il chierico, l’artista, non è un cittadino come gli altri. Ha doveri e diritti superiori a quelli degli altri».

Come ha ben notato Julien Hervier, la necessità di impegno rientra quindi nell’etica di Drieu dell’azione per il bene dell’azione. Si mette in gioco, non per provocazione, ma perché non farsi coinvolgere sarebbe da codardi: nella vita bisogna sforzarsi per sporcarsi le mani. E soprattutto, ripetiamo, cerca nella politica ciò che ha sempre cercato, senza mai raggiungerlo: non tanto una “terza via” quanto una sorta di sintesi assoluta, grazie alla quale riuscirebbe a conciliare le sue contraddizioni. È subito deluso, ma non vuole ammetterlo. È per lo stesso motivo che, sotto l’occupazione, anche se sarà convinto della sconfitta tedesca, rimarrà sulle sue posizioni.

Nei suoi romanzi Drieu mette in gioco anche personaggi che denunciano o rivelano la vanità dell’impegno politico. In Beloukia , Felsan è presentato come «una di quelle mediocrità che si gettano nel fanatismo politico per vendicarsi dei miseri risultati che l’eccessiva mediocrità dei loro temperamenti produce nel lavoro ordinario». Ne L’uomo a cavallo, nemmeno Felipe non si fa illusioni sulla politica. Questa è autocritica, una in più?

Ernst Niekisch

Il nazionalbolscevismo professato da Niekisch e da pochi altri, vide nella Rivoluzione d’Ottobre una rivoluzione eminentemente nazionale. Ha sostenuto un “Orientamento verso l’Est” (Ostorientierung) al fine di liberare la Germania sconfitta dalla doppia influenza dell’Occidente in dissoluzione e del sud cattolico. Niekisch vedeva anche nel sistema sovietico qualcosa di simile allo spirito prussiano e allo stesso tempo a questo “socialismo tedesco” rivendicato anche da Spengler e Sombart. Drieu scrive che «l’unica risorsa profonda dell’imperialismo tedesco sarebbe un comunismo tedesco», ma non è nella stessa prospettiva. Fu solo dal 1943, dopo aver realizzato che Hitler aveva fallito la “rivoluzione socialista” e che l’hitlerismo era un vicolo cieco, che lodò francamente il comunismo russo:  «Dobbiamo augurare la vittoria dei russi piuttosto che quella degli americani […] I russi hanno una forma mentre gli americani no […] Nulla mi separa di più dal comunismo, niente che mi abbia mai separato da esso della mia atavica tensione di piccolo-borghese».

Queste ultime parole sono rivelatrici. Nel Manifesto del Partito Comunista (1847) Marx affermava che «il governo moderno è solo un comitato che gestisce gli affari comuni di tutta la classe borghese». Aggiungeva che «le condizioni borghesi di produzione e scambio, il regime borghese della proprietà, la moderna società borghese […] assomigliano al mago che non sa più dominare i poteri infernali che ha evocato». Jünger avrebbe potuto sottoscrivere questa affermazione, poiché per lui la figura dell’operaio è esattamente l’opposto di quella dell’odiato borghese. Drieu è molto più ambivalente. Il suo primo matrimonio con Colette Jéramec gli aveva già permesso di condurre una vita borghese che diceva di odiare. Il suo romanzo intitolato Rêveuse bourgeoisie, pubblicato nel 1937, descrive la storia di una famiglia borghese prima e dopo la prima guerra mondiale, ma non contiene quasi nessuna considerazione politica. Drieu sa benissimo che anche l’individualismo borghese, che condanna fermamente, fa parte del suo essere. Maledice la decadenza ancora di più quando si rende conto che c’è qualcosa di decadente anche in lui.

L’ interrogation contiene questo versetto: «E il sogno e l’azione». Sono parole che sono state citate spesso perché la loro giustapposizione traduce esattamente ciò che, per tutta la vita, Drieu ha cercato di riconciliare. La ricerca di una “terza via” potrebbe certamente sembrare del tutto naturale a chi ha sempre cercato di conciliare gli opposti: sogno e azione, scrittura e guerra, inchiostro e sangue. Ma non è mai stato in grado di raggiungere i suoi obiettivi. Anche la politica ha corrisposto alla ricerca di un assoluto capace di conciliare tutti gli opposti. Come l’eroe di L’uomo a cavallo, Drieu sognava anche «qualcosa di più profondo della politica, o meglio di questa politica profonda e rara che unisce poesia, musica e, chissà, forse alta religione». Ma non sapeva come determinare il percorso che lo avrebbe condotto in questa direzione. Per molti versi è sempre stato un dilettante. Riguardo al suo Diario degli anni 1939-1945, si potrebbe addirittura parlare della sua “indifferenza per ogni profonda convinzione ideologica”, della sua “versatilità” (Julien Hervier). Fondamentalmente, non aveva i mezzi teorici per capire davvero le idee a cui aderì.

Drieu è uno di quelli che si sforzano di amare ciò che gli manca di più. È tanto più appassionato di politica perché la politica lo disgusta e lo delude. Lo stesso vale per le donne, e anche per il corpo. Drieu era un uomo di esitazioni, voltafaccia, oscillazioni, entusiasmi contraddittori, indecisioni e soprattutto pulsioni sempre deluse. Rispetto a Jünger, era un soldato del fronte, a volte un ribelle (Waldgänger), mai un anarca.

I due uomini hanno in comune l’aver ritenuto necessario che i popoli d’Europa oltrepassassero il quadro nazionale. Come consideravano entrambi la nazione, oggetto di gran parte dei loro scritti dopo la Grande Guerra?

Fu negli anni ’20, a cominciare da Mesure de la France (1922), che Drieu si dichiarò con la massima forza a favore di un grande blocco continentale europeo. L’idea fu ripresa nel 1927 in Le Jeune Européen, nel 1928 in Ginevra o Mosca, nel 1931 in L’Europe contre les patries. Nella Commedia di Charleroi si legge ancora nel 1934 che «oggi, la Francia o la Germania, sono troppo piccole». Allo stesso tempo, Drieu pensava di aver trovato nella Società delle Nazioni lo schema di quelli che chiama i suoi desideri (Ginevra o Mosca), il che sembra un po’ strano oggi. Ancor più bizzarramente, assegna al “capitalismo europeo” il ruolo di distruggere i patriottismi locali a beneficio del patriottismo europeo.

Drieu la Rochelle

L’idea di una “terza via” si basa infatti per lui, in maniera abbastanza tradizionale, sull’ovvia necessità ai suoi occhi che l’Europa si tenga a distanza sia dal modello americano che da quello sovietico, due forze di cui, come abbiamo già detto, ne rileva la profonda parentela: «Negli Stati Uniti d’America fanno lo stesso quelli che si chiamano capitalisti, nell’URSS russa quelli che si chiamano comunisti». Nei suoi romanzi, Boutros, il personaggio centrale di La donna alla finestra, dichiara, sebbene comunista, di non avere «più fiducia negli americani o nei russi». «Popoli d’Europa ridotti ed esausti, siamo tra due masse: l’America e la Russia. L’Europa, collocata tra gli imperi di dimensioni continentali, comincia a soffrire di essere divisa tra venticinque Stati, nessuno dei quali abbastanza grande da dominare tutti gli altri o da rappresentare dignitosamente nella sproporzionata competizione che si apre tra le enormi porzioni dell’Asia e dell’America» (Mesure de la France). La sua idea generale è che il futuro dell’Europa dipende dalla sua capacità di unirsi per affrontare i due imperialismi in competizione che la minacciano. Le “piccole nazioni”, i nazionalismi divenuti angusti, sono incapaci di questo. Per fare l’Europa, dobbiamo muovere guerra alle “piccole patrie” che sono tanti ostacoli al suo emergere sulla scena mondiale. «L’Europa si federerà o si divorerà, o sarà divorata», si legge già in Mesure de la France. Di sfuggita, Drieu loda l’Impero: «La patria è amara per chi ha sognato l’impero. Che cosa è per noi una patria se non è una promessa di impero?» (L’uomo a cavallo). L’Europa deve federarsi in modo “imperiale”, il che significa che non la concepisce in modo “napoleonico”, come nazione allargata. Ciò che Hitler, prigioniero del suo nazionalismo e del suo pangermanismo, non ha mai capito. Drieu lo ripete costantemente dopo il 1942: «Hitler è un rivoluzionario tedesco, ma non europeo».

Su L’Europe des patries scrive: «Innanzitutto non siete Germanici, basta con queste battute. Non più di quanto noi siamo Galli o Latini, o gli Italiani sono Romani. Figure tratteggiate dalla poesia, addensate in forme di mostri politici da nostalgici piccolo-borghesi nel profondo delle biblioteche dell’Ottocento […] non siamo niente quando non siamo un continente». Va notato che Drieu riprende anche l’opposizione tra “giovani” e “vecchi”, che troviamo in un Moeller van den Bruck. Sotto diverse forme questo tema di un’Europa potente e socialista rimarrà una delle costanti della sua opera.

Jünger sapeva anche prendere le distanze dalle ristrette affiliazioni nazionali. Anche lui era un “buon europeo”, ma non nel senso che gli dava Drieu. L’operaio solleva già una questione globale che si ritroverà nel dopoguerra nel suo saggio sullo Stato universale. In La pace, Jünger si accontenta di implorare la rinascita di un’Europa spiritualmente unita e ricristianizzata. Drieu sogna solo la rigenerazione. Come Nietzsche, pensa che ciò che sta crollando non dovrebbe essere cercato per salvare, ma al contrario per accelerarne il crollo. Per questo, nel suo diario, dichiara di augurare la distruzione dell’Occidente e di invocare un’invasione barbarica che spazzerà via questa civiltà morente: «È con gioia che accolgo l’avvento della Russia e del comunismo. Sarà atroce, terribilmente distruttivo».

Drieu è anglomane e ha la fama di essere germanofilo, ma in fondo non sa molto del mondo germanico. Jünger è considerato un francofilo, il che non è falso ma troppo spesso ci fa dimenticare, tra i francesi in particolare, fino a che punto appartenga anche alla germanità. Drieu è talvolta accecato dalla sua anglomania: ha scritto per la prima volta che gli europei dovrebbero prendere a modello gli anglosassoni, di cui ha sottolineato la bellezza, l’adorazione del corpo e la distinzione, come un buon dandy. Solo più tardi, a quanto pare, si renderà conto che i paesi anglosassoni sono anche la terra d’elezione del capitalismo, dell’utilitarismo e dell’uniformità materialista, e che sono «le due grandi potenze anglosassoni che detengono gli oceani». Notiamo infine che i paesi del Sud, che hanno un ruolo di primo piano nei suoi romanzi, sono notevolmente assenti dalle sue considerazioni più teoriche relative all’Europa.

Entrambi attribuivano grande importanza alla trascendenza e svilupparono un interesse per le religioni e per il cristianesimo – si pensi ai tanti riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento nel “Diario di guerra” di Jünger – sviluppandone uno sguardo critico e nietzscheano. Come vedevano questo mondo moderno abbandonato dal divino?

Jünger lesse principalmente scritti biblici e cristiani a partire dalla fine della guerra, quando scrisse La pace, e anche negli anni ’50, durante il periodo che terminò con il suo saggio Lo Stato mondiale (1960) – uno sviluppo che deluse molto il suo segretario al tempo, Armin Mohler! Jünger traccia un parallelo tra l’ascesa del totalitarismo (“bestialità nuda”) e la disintegrazione del cristianesimo.

Nelle sue lettere ai surrealisti, Drieu, che sognava anche lui di essere sacerdote o monaco, scriveva che «la funzione essenziale, la funzione umana per eccellenza che viene offerta a uomini come te, audaci e difficili, è cercare e trovare Dio». Ma con lui le allusioni a Dio sono piuttosto rare, e su questo punto differisce molto poco da Jünger. Più della religione stessa, è la spiritualità – per usare un termine divenuto di moda, e quindi abusato – che lo attrae. Da qui l’interesse che finì per nutrire per la saggezza orientale e persino per l’esoterismo. Nella prefazione a Gilles (1939), scrive che se la sua vita dovesse essere ricostruita, la dedicherebbe alla storia delle religioni. Come Jünger, che era molto legato a Mircea Eliade (hanno curato insieme la rivista Antaios), ha un appassionato interesse per i miti e fa costantemente riferimento al sacro, ma non cerca mai di metterlo in relazione con una religione particolare. Il sacro è per lui sinonimo del divino, e questo divino è più immanente che trascendente: «Dio», dice, rappresenta soprattutto la «profondità del mondo». Dall’affermazione di Nietzsche che «Dio è morto», Jünger trae la convinzione che «Dio deve essere concepito in modo nuovo». Quella che normalmente viene chiamata fede ha poco a che fare con essa. Si pensi piuttosto alla famosa affermazione di Heidegger: «Solo un dio può salvarci».

Vedi nelle loro tendence artistiche segnate dal surrealismo per Drieu la Rochelle e dal classicismo per Ernst Jünger un legame con i loro impegni politici?

Non so se si possa davvero parlare, riguardo a Jünger, di una vera attrazione artistica per il classicismo. Giunto al periodo “goethiano” della sua vita, non smette certo di scrivere in uno stile classico, ma ciò non gli impedisce di interessarsi a pittori, incisori o disegnatori di tendenze molto diverse (Alfred Döblin, A. Paul Weber e molti altri).

Ernst Jünger e Alain de Benoist negli anni ’70.

Drieu, dal canto suo, ha sempre avuto una visione eminentemente estetica della vita in generale e della politica in particolare. Voleva essere un grande artista, come voleva essere un grande poeta, un grande amante, un grande politico, ma è difficile capire quali fossero esattamente i suoi gusti artistici. In tre famose lettere incendiarie, ruppe rapidamente con i surrealisti, che lo delusero anche. In una di queste lettere confida di concepire «la vita come preghiera, e l’Arte, il modo di articolare questa preghiera», ma le sue osservazioni si riferiscono solo all'”Arte” in generale, non a uno stile particolare. Gli è successo in seguito per difendere pittori come Fernand Léger, Georges Braque, Matisse o Picasso, ma questo non basta per raccontarci davvero le sue predilezioni artistiche.

Nel suo articolo “Artisti e Profeti”, pubblicato nel 1939 a Buenos Aires sul quotidiano La Nación, Drieu osservava che gli “inquisitori hitleriani” , nella loro lotta contro la “pittura degenerata“, «vogliono distruggere tutto l’aspetto convulso dell’arte. arte degli ultimi tempi. Ora loro stessi, nel loro movimento rivoluzionario, sono l’espressione più certa del carattere convulso dello spirito del secolo». E aggiunge: «Gli hitleriani bandirono l’opera di Vincent Van Gogh dai musei tedeschi. Tuttavia, questo pittore violento e disperato mi sembra uno dei precursori di Hitler». Un’idea che non era stata ancora esplorata!

Traduzione di Alessandro Napoli

Fonte: philitt.fr

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